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Medio Oriente
Se Hamas non cede, Gaza può dividersi come si divise Berlino
"Come previsto dagli Accordi, Israele gli ha riconsegnato il 47 per cento dell’enclave, mentre Tsahal ne controlla il restante 53 per cento. Se le condizioni del piano non saranno rispettate, si potrebbe realizzare una spartizione simile a quella avvenuta in Germania" dice Shavit, editorialista di Haaretz e del New Yorker
“Fake it till you make it. La determinazione del presidente americano Donald Trump nel portare avanti il piano di pace è stata tale che alla fine è riuscito, nonostante ogni tipo di difficoltà, a portare tutti gli attori necessari al tavolo delle negoziazioni”. Sono queste le parole di Ari Shavit, ex editorialista di Haaretz e del New Yorker, autore del bestseller “La mia terra promessa. Israele: storia e contraddizioni di un paese in guerra”. A soli nove giorni dalla firma per il cessate il fuoco, domenica è già stato violato da Hamas, che ha ucciso due soldati israeliani. Eppure, almeno per il momento, la tregua sta reggendo, come se anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avesse deciso di abbracciare “il nuovo paradigma imposto da Washington, preferendo una lunga ma duratura pace totale al posto di un ormai impossibile vittoria totale”. Come Shavit racconta al Foglio “questo cambio di paradigma è stato possibile grazie all’impavido real estate of mind di Trump, che è riuscito a ottenere quello che nessun altro presidente americano, con ben maggiori doti diplomatiche, sarebbe riuscito a fare: convincere tutti gli attori coinvolti e raggiungere un accordo di natura regionale, imponendolo, de facto, alle due parti".
Secondo l’analista, per raggiungere questo slancio è stata necessaria, prima di tutto, la minaccia di febbraio del progetto Gaza Riviera: “Non tanto nei confronti di Hamas, quanto nei confronti dei paesi moderati della ragione che, di fronte a tale minaccia, hanno avvertito la necessità di trovare un modo per implementare la proposta orchestrata, già nel dicembre 2023, da Mohamed bin Zayed, presidente degli Emirati Arabi Uniti, principale architetto degli Accordi di Abramo. Ma mentre la Casa Bianca imponeva al premier israeliano la via diplomatica, contemporaneamente, isolava anche Hamas sia sul piano delle alleanze – trascinando Qatar e Turchia al tavolo dei negoziati – sia attraverso la pressione militare, tanto che Shavit paragona l’ingresso dell’esercito a Gaza City alla presa di Berlino durante la Seconda Guerra Mondiale: “Il gruppo terrorista per due anni ha rifiutato ogni proposta americana, giocando sul fatto che Israele si trovasse profondamente diviso al proprio interno. Ma nel momento in cui Trump è riuscito a riunire l’intero paese grazie alla promessa del ritorno di tutti gli ostaggi, Hamas ha realizzato di trovarsi di fronte ad un vicolo cieco”. Una volta portati le due parti al tavolo, la mossa finale è stata realizzata dall’inviato speciale americano per il medio oriente Steve Witkoff e dal genero del presidente, l’imprenditore Jared Kushner, grazie alle loro solide connessioni con il mondo arabo moderato, che hanno fatto da garanti tra Israele e Hamas permettendo il ritiro dell’esercito lungo la “linea gialla” e, con questo, lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi.
“Tuttavia, per far ciò, gli Stati Uniti e i loro alleati mediorientali hanno dovuto pagare un prezzo alto, scendendo a patti, e quindi riconoscendo, attori tanto efficaci quanto pericolosi poiché sponsor della Fratellanza Musulmana, quali Qatar e Turchia, assieme allo stesso Hamas che, di fatto, sta ancora governando la Striscia, ben lontana dal risultare demilitarizzata come previsto dalla seconda fase dell’accordo, che in questo momento si trova in stallo. Eppure – continua Shavit – era un prezzo che valeva la pena pagare poiché ha raggiunto due obbiettivi straordinari: il cessate il fuoco, indispensabile per cominciare un nuovo percorso diplomatico; ma, soprattutto, riportare a casa tutti gli ostaggi: operazione imprescindibile per ricucire quella ferita, apertasi il 7 ottobre, la cui cicatrizzazione era la condizioni indispensabile per portare avanti il progetto della pacificazione regionale, prevista da quegli Accordi di Abramo siglati già durante la prima Amministrazione Trump e il cui avanzamento è stato proprio una delle cause che hanno portato all’efferato attacco del Sabato Nero. La strada per una normalizzazione regionale è ancora in salita e con non pochi interrogativi ma rappresenta, sicuramente, l’inizio del cammino necessario per una pace duratura”.
Shavit conclude con un’altra metafora che riporta al Secondo Dopoguerra: “In questo momento, come previsto dagli Accordi, Israele ha riconsegnato ad Hamas il 47 per cento dell’enclave, mentre Tsahal ne controlla il restante 53 per cento. Per tanto, se non dovessero venire rispettate le condizioni previste dal piano, si realizzerebbe, de facto, una spartizione simile a quella avvenuta nella Germania postbellica, portando i gazawi, come allora i tedeschi, a dover scegliere da che parte stare tra una Gaza est controllata dall’esercito di Israele e in via di ricostruzione, o una Gaza ovest ancorata al regime totalitario di Hamas. Questo bivio potrebbe accelerare in modo decisivo la delegittimazione del gruppo terrorista e quindi, mentre si porta avanti la normalizzazione del medio oriente, creare tutte le condizioni necessarie per il riconoscimento, previsto dagli stessi Accordi, di uno stato palestinese”.