
Chi è Mzia Amaghlobeli, simbolo della resistenza del popolo georgiano
Condannata a due anni di carcere, la giornalista protesta in silenzio e senza parole contro l’etichetta di "violenta" che il regime le ha appiccicato. In tribunale dietro la teca di vetro sta sempre in piedi, in silenzio, e trasforma la prigione in un manifesto politico
È inconcepibile essere oggi nel movimento di resistenza e non essersi posti delle domande – se mi arrestano, che cosa succederà? come sopporterò tutto questo? come mi comporterò? quanto riuscirò a mantenere me stessa? In momenti così devo ammettere che, prima di tutto, penso a Mzia Amaghlobeli, arrestata a gennaio e condannata ad agosto a due anni di carcere, e mi dico: probabilmente io non ce la farei.
Nei processi guardo Mzia, eretta con fierezza, che non si siede, e mi viene in mente Rosa Parks, che si sedette e non si alzò. Negli Stati Uniti degli anni ’50 Rosa Parks divenne il simbolo del movimento per i diritti civili. È la donna dell’autobus. Parks, tornando a casa dal lavoro, si sedette in un posto riservato a lei, cioè alle persone di colore. Secondo le regole discriminatorie dell’epoca, avrebbe dovuto cedere il posto a un passeggero bianco rimasto senza un posto. Rosa Parks non cedette il suo posto: ne seguì un breve arresto amministrativo e una multa. Tuttavia, l’ostinazione di Parks e la difesa della propria dignità diedero avvio a una grande ondata di protesta che durò 381 giorni e portò infine all’abolizione della segregazione nel trasporto pubblico cittadino.
Rosa Parks non era una semplice attivista; era una donna istruita, colta, dotta nelle leggi, rispettata nella comunità afroamericana.
Chi è Mzia? Mzia non è una comune militante che partecipa spesso a manifestazioni. Probabilmente non è nota nemmeno in televisione. Mzia parla poco, agisce, e con quegli atti – insieme ad amici e colleghi – ha creato due testate giornalistiche affidabili, imparziali e indipendenti, che esistono da oltre vent’anni e che hanno resistito a tre diversi governi. In Georgia la libertà di parola è associata proprio a queste testate e a Mzia Amaghlobeli; perciò, per l’attuale potere violento e autoritario la sconfitta di Mzia avrà un valore simbolico: nel nostro paese essa equivarrebbe alla sconfitta della libertà di parola.
La caratteristica che ammalia di più nelle donne combattenti è la testarda difesa dei propri principi, della verità. Mzia rompe anche lo stereotipo femminile che gli uomini hanno forgiato – la donna "strillante", isterica. Mzia non autorizza i suoi amici o parenti a parlare dei suoi problemi di salute: sta perdendo la vista, in carcere, un occhio è cieco, l’altro funziona male. In prigione Mzia spesso non usufruisce neppure delle condizioni minime di comfort che le spettano per legge. Ma ciò che affascina maggiormente è la sua calma silenziosa, monumentale, che esibisce in ogni udienza. Ci sono già stati numerosi processi e in nessuno di essi Mzia è mai stata seduta. Viene chiusa in una cabina vetrata, la cosiddetta "gabbia", nell’aula del tribunale. Quasi in ogni udienza l’avvocato chiede che Mzia possa sedersi accanto a lui, senza le pareti di vetro, per poter difendere i suoi diritti; ma la giudice dichiara ogni volta che sussiste ancora il rischio di reiterazione del reato o di attacco e non accoglie le istanze dell’avvocato.
Mzia protesta in silenzio e senza parole contro l’etichetta di "violenta" che il regime le ha appiccicato. Mzia sta in piedi, non si siede, non si è mai seduta, non si rassegna a questa ingiustizia e così combatte. Se Rosa Parks non si alzò e non cedette il posto che le spettava, Mzia Amaghlobeli non prende il posto che non le appartiene. Per Mzia, salire in quel posto delimitato, riservato a pericolosi criminali, significa arrendersi e ammettere la colpa. Ecco perché, per quante ore possa durare il processo, Mzia rimane in piedi, silenziosa e composta, tante ore quante il sistema — fatto dai uomini codardi — la costringe a restare. Uomini codardi il cui leader, di fronte alla gente, si muove solo dietro una teca antiproiettile di vetro. Spesso ci chiediamo l’un l’altro: che cosa accadrà, come vinceremo? Vinceremo, perché abbiamo più di cento prigionieri politici e nessuno di loro si è spezzato; tutti stanno in piedi, come rocce, e proprio con questa incrollabile fermezza "vinceremo questa guerra".
In una delle ultime udienze è stato offerto a Mzia un’accordo processuale che implica la sua ammissione di colpa. Le si chiede di dire che ha insultato i poliziotti, che li ha aggrediti, che agiva su mandato del "deep state" e così via. Nello stesso giorno è stato reso noto che l'Agenzia delle Entrate ha disposto il sequestro dei conti del "Batumelebi" (il giornale di Mzia). Tutte queste azioni perseguono un unico scopo: spezzarla e metterla sul banco degli imputati. Le chiedono se rimpiange le sue azioni e si aspettano una risposta diversa da quella che già hanno ascoltato: "Dire che mi pento sarebbe ipocrisia. Era inevitabile. Ripeto: sarei stato molto più in pace con me stessa se avessi dato una risposta verbale adeguata, ma questo è accaduto e non posso sfuggirne". Mzia è la nostra dignità, è il simbolo della nostra lotta; non la metteranno mai sul banco degli imputati e non confesserà mai un crimine che non ha commesso.