Ansa

Il ritratto

Nella tana parigina di Serge Gainsbourg

Stefano Pistolini

La figlia Charlotte ha aperto al pubblico la casa di famiglia, che è rimasta intatta e racconta un feuilleton esistenziale durato trent’anni. Quello di Serge il latin lover, lo chansonnier, il musicista: il costante imperfetto con la faccia da schiaffi

Mentre ballavamo la giavanese / ci amavamo / per tutta la durata di una canzone”. Volete fare la prova? Entrate in un qualsiasi karaoke di Francia, uno di provincia, oppure in centro a Parigi, o nelle sue sterminate periferie. O magari imbucatevi a una festa di compleanno, di quelle dove si sbevazza e a un certo punto s’intonano in coro i pezzi che tutti conoscono: quando arriva il momento de “La Javanaise”, la sanno tutti, conoscono le parole a memoria e fanno le facce, mentre la cantano. E’ uno dei possibili indizi, tra quelli subito accessibili, di chi sia stato, quanto abbia contato e chi sia ancora Serge Gainsbourg, per questo paese. Quanto a noi, in Italia, ne siamo meno consapevoli: qua la popolarità di Serge non ha mai conosciuto picchi rilevanti, se non ai tempi della canzone-scandalo, quella dei sospiri. Per noi il suo personaggio era enigmatico, abbastanza estraneo, in ricorrente eccesso di fastidioso piacionismo. E poi le parole delle sue canzoni erano incomprensibili e quella voce pastosa poteva suonare innervosente.

 

Quanto all’aspetto esteriore da “brutto che piace”, in questo sembrava surclassato da Jean-Paul Belmondo e dalle sue smorfiette: Serge sembrava sempre più trasandato e poi eccessivamente alcolico, a tratti scostante, igienicamente dubitabile. Eppure, chi ha  una certa età deve avere per forza fatto i conti con “Je t’aime, moi non plus”, il 45 giri che in un’altra Italia (1967, ovvero prima di tutto, almeno quanto a esposizione del desiderio) veniva venduto sottobanco, nemmeno fosse una pistola carica. Una volta acquistato e messo al sicuro a casa, veniva ascoltato tipo Radio Londra, vuoi da adulti solitari che strabuzzavano gli occhi, vuoi da ragazzini ormonali, che facevano di tutto per trattenere le risatine e una contagiosa eccitazione. Parte quell’organo un po’ alla Procol Harum, e il tipo e la tipa che dialogavano sembravano davvero mugolarsi frasi prese di peso da un’alcova, prima, durante e dopo il culmine dell’amplesso, in quel pezzo che poi, alla fin fine, si poteva anche ballare alle festicciole, avvinghiati come sardine e con la soddisfazione di sentirsi trasgressivi, a patto non ci fossero genitori nelle vicinanze. E comunque solo i bene informati sapevano che quel Serge francese e dall’aria malinconica la canzone l’aveva scritta niente meno che per Brigitte Bardot, che era stata la sua ragazza (cioè: uno con quella faccia, fidanzato con l’icona suprema dell’erotismo. Una notizia da sballo) ma che nel frattempo l’aveva mollato, e ne avrà avuto ottime ragioni.

 

Lui però alla fine si era consolato (con molta fatica nel superare lo choc: non capita spesso di smarrire una Bardot per strada), mettendosi insieme a Jane Birkin, la giovane, filiforme fanciulla britannica di cui s’era già accorto Michelangelo Antonioni, che le aveva affidato un piccolo ruolo conturbante in “Blow Up”, ammaliato da quei suoi tratti così moderni da sembrare conseguenza naturale di Carnaby Street. Perciò, Gainsbourg la sua canzone osé aveva finito per sussurrarla in duetto con Jane, ed era diventata un successo mondiale. Qui poi ci sarebbe da aprire una parentesi, per raccontare come BB in effetti la sua versione di “Je t’aime” l’aveva registrata con Gainsbourg ma che, una volta consumata la separazione, si era opposta alla sua pubblicazione (meglio: come interprete di sexy song BB valeva pochissimo. Non aveva brillato nemmeno duettando, sempre con Serge, nella cantilena dedicata a Bonnie & Clyde, personaggi assai di moda. Lei sembrava davvero passata di lì per caso). E’ indispensabile ricordare almeno come, in anni in cui non si buttava niente, anche al “pornodisco” di Serge e Jane venne applicato il supplizio della versione italiana, affidata alle sapienti, ma molto consumate ugole di Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer che, com’era prevedibile, la buttarono pesantemente sul melò.

 

Andando oltre, in Italia di Serge Gainsbourg ci siamo accorti soltanto in quell’occasione e poi più nulla. E al limite fu la Birkin a godere di un seguito di ammiratori fedeli, perché la sua icona seduttiva in quegli anni era innegabilmente potentissima. E comunque, col trascorrere del tempo, quel cognome “Gainsbourg”, avrebbe continuato a galleggiare nell’aria, grazie alla progressiva notorietà di culto della ragazza che era stata il frutto dell’amore di Serge e Jane, ovvero Charlotte, piccola dea del cinema impegnato europeo. Serge però intanto se n’era già andato da un pezzo al Creatore, sebbene avesse fatto in tempo ad accorgersi del talento e del fascino sprigionato dalla sua amata creatura, della quale s’era anch’egli infatuato, provando a trasmetterle un po’ della sua strana visione del mondo, delle cose e delle persone. Ne sono prove tangibili il 45 giri “Lemon incest” inciso da Serge con una Charlotte dodicenne, condito da un videoclip in cui lei appare discinta accanto a lui su un letto dalle lenzuola nere. E poi con il tenero e un po’ imbarazzante film “Charlotte forever”, scritto e diretto da Serge, che chiaramente racconta un’esperienza autobiografica: una ragazzina che vive col padre alcolizzato alla deriva, in un susseguirsi di allusioni incestuose.

 

Fatto sta che quando Charlotte non ha nemmeno vent’anni, il 2 marzo del 1991, tocca a lei trovarlo morto nel suo boudoir: Gainsbourg s’era accomiatato dal mondo, da solo, malridotto e semi-cieco, stroncato da un infarto che non era il primo e non era nemmeno inaspettato. Per i francesi, che contrariamente a noi, di Serge non avevano mai smesso di seguire le gesta da inguaribile e perverso dandy snob, fu uno choc nazionale. Con quell’aria da uomo consunto, Serge di anni ne aveva solo sessantadue e sembrava destinato a essere un’abitudine perenne. Anche François Mitterrand si spese per salutarlo, paragonandolo nel suo elogio funebre a Baudelaire e ad Apollinaire, così legittimando il suo ingresso nell’Olimpo del genio transalpino, ma pur sempre consegnandolo al passato. Ma ecco che qui arriva la notizia che, scavalcando il memorialismo, riporta la figura di Gainsbourg nell’attualità, accordandole un ruolo da metro di paragone per molti ragionamenti sulla celebrità, e sulle regole dell’attrazione. 

 

L’ormai cinquantenne Charlotte di recente ha infatti coronato il proprio sogno e ha aperto al pubblico la casa di famiglia, in sostanza la tana parigina di suo padre: rue Verneuil 5 bis, nel sesto arrondissement, a due passi dal fiume, casa di Serge dal 1969 fino alla fine, ovvero “Maison Gainsbourg”. Chiunque sia passato da quelle parti, del resto, non può non essersene accorto: sulle mura esterne dell’edificio ci sono dieci metri di migliaia di scritte, graffiti, disegnini amorosi lasciati dai fans dell’anticonformista per antonomasia. Adesso però si può fare molto più che firmare una dichiarazione d’amore col pennarello: si può vedere tutto.  La casa è stata aperta e, per volere di Charlotte, è rimasta intatta, con gli arredi, gli oggetti, le opere d’arte, le collezioni di Serge mostrate nell’ordine maniacale con cui lui le conservava, in contrapposizione con quello che definiva il proprio disordine interiore. Charlotte ha rilevato dai fratelli la proprietà dell’immobile e, divenutane l’unica proprietaria, ha investito parecchi soldi per offrire agli ammiratori di Serge non un altare alla memoria, ma un penetrante strumento di conoscenza intima di suo padre. E la visita è un’avventura psicologica, ovviamente venata di voyeurismo. La si può fare al massimo in coppia, il che è un vantaggio perché ammorbidisce i pudori, mentre si gode della voce di Charlotte che funge personalmente da guida attraverso gli ambienti e i loro significati, a volte reconditi, avvolti dalla colonna musicale appositamente creata da Soundwalk Collective, il collettivo berlinese che ha già collaborato anche con Nan Goldin.

 

E così comincia l’immersione nel mondo di questo figlio di immigrati ebrei russi (Ginzburg era il cognome originale) ed è difficile restare indifferenti: si percepisce irrequietezza, desiderio di bellezza, incostanza, aggirandosi tra le fotografie, gli abiti del suo guardaroba (il gessato Saint Laurent), i libri, i dischi d’oro, il portacenere pieno, l’accendino. Ci s’imbatte ne “La chasse aux papillons” di Salvador Dalí o nel manoscritto originale della “Marsigliese” di Rouget de Lisle, ci sono gli echi di una disordinata vita bohemién, di suoi amori tempestosi, di un incontenibile narcisismo, della sua cultura insicura, della sua autodistruttività. indizi del suo tempo buio, quello della solitudine e della depressione. E’ un feuilleton esistenziale durato trent’anni tra queste stanze-rifugio dalle pareti dipinte di nero, al riparo in una traversa tranquilla dell’elegante rue des Saints-Pères, costellata dalle vetrine degli antiquari più costosi di Parigi. S’intravede il fantasma dell’uomo spudorato, poco preso sul serio dalla critica musicale e invece adorato dalle redazioni dei rotocalchi gossip. Perché Serge era raramente avvicinato come artista, ed eternamente raccontato come quello delle due mogli, Elisabeth Levitsky, modella del giro di Dalí, e l’aristocratica Béatrice Pancrazzi – e delle mille conquiste da latin lover: tre anni con BB, la relazione con Juliette Gréco (che abitava a due passi da lui), la lunga storia con l’androgina Birkin, i rapporti extra-professionali con la musa godardiana Anna Karina, con l’icona Françoise Hardy, con la teenager Vanessa Paradis e, corrono voci, con Adjani, Deneuve, Dalida, perfino con Petula Clarke e chissà quante altre.

 

Però meglio evitare di cadere nella tentazione di mitizzare Gainsbourg, cadendo ai suoi piedi ipnotizzati dal suo fascino facile. Perché le cose stavano in un modo più complicato di così e perché il personaggio-Gainsbourg faceva fin troppa ombra all’uomo-Gainsbourg, ne riempiva gli spazi, segnava la sua strada, in un certo senso lo comandava. Giorno dopo giorno, Serge doveva dimostrarsi più Gainsbourg che mai, un po’ perché gli risultava semplice, un po’ perché scartare dal binario era difficile. Era tutto un sorpassarsi tra realtà e messinscena, e questa rincorsa è diventato il segno della sua vita, e lui doveva essersi rassegnato ad accettarlo. Così, quando, appena quarantenne, Serge ebbe il primo infarto, quello comunemente chiamato “il campanello d’allarme”, lui si preoccupò di far sapere al mondo, in conferenza-stampa, che nella sua stanza d’ospedale, erano state rinvenute bottiglie di whisky vuote e pacchetti di sigarette accartocciati e che fumo e alcol erano la cura che si riprometteva di seguire. Era tutto così, più vero del necessario – o magari no, solo impegnato a discendere la china del farsi piacevolmente del male. 

 

E in questo ricamare sull’immanente presenza di Gainsbourg come “l’uomo in più” della cultura popolare francese, a un certo punto bisogna arrivare a parlare un po’ di musica, che è sempre stata la sua attività, per quanto inizialmente ne abbia tentate altre, nel vasto spettro degli studi d’arte, conditi dalla frequentazione di scapigliati pittori e dalla grande amicizia con Boris Vian, che fece un punto d’onore dello spingerlo a prendere sul serio la musica e farne una professione. Gainsbourg, una volta presa quella strada, non si fermerà: scriverà centinaia di pezzi, ne canterà un’infinità, altrettanti li affiderà alle voci che sceglieva, spendendosi con passione nelle vesti di produttore, oscillando tra Parigi e Londra. Una discografia prolifica e, a farle da pendant, i suoi show, le sue apparizioni in tv e le tournée nelle quali, quando era nel mood giusto, diventata un intrattenitore impareggiabile, con quei modi rilassati, lo stile del flaneur, il dono di percepire l’aria, di dialogare col pubblico, dominandolo e facendolo cadere in amore. E i suoni: a Serge l’abito dello chansonnier francese figlio del ruggente dopoguerra, stava stretto, si scontrava con la sua curiosità, l’intuito che lo spingeva altrove, a cercare, sperimentare, contaminare: è tra i primi ad avvicinare la musica africana e a riadattare il flusso ritmico della musica latina e di quella black, nera come il colore che amava, e calda come i suoni dei tropici, il reggae in particolare.

 

Dalla Giamaica ritorna inventandosi un alter ego che chiama Gainsbarre, un irrecuperabile vagabondo che di francese ormai ha solo la lingua, ma vive un trasporto musicale tutto in levare, con la complicità del fedele arrangiatore Alan Goraguer, e di maestri assoluti come Sly & Robbie, Rita Marley, le I-Threes. Anche se non era davvero tutto oro, nel suo repertorio. I manierismi, le affettazioni, i birignao, le banalità erano in agguato, al punto di rendere un suo Lp quasi sempre un tortuoso percorso tra alti e bassi. Era nel suo carattere: quantità, un continuo esporsi, esprimersi, a volte con la guardia abbassata, magari intonando liriche affogate nei luoghi comuni. Anche questo è Gainsbourg, eterno maestro mancato, costante imperfetto, perché l’idea della perfezione l’affaticava, e in fondo contava il giusto. 

 

Entriamo nello shop dove si finisce al termine della visita a casa Gainsbourg. E’ la festa delle copie, la vetrina delle riproduzioni. Tutto replicato in oggetti dal prezzo leggero, alla portata di chiunque (la Saint Laurent no, quella continua a costare come un’utilitaria). L’offerta è sbadata, pacchiana: volete illudervi di comprare un frammento del segreto della celebrità, dell’arte di piacere, dell’elisir della seduzione? Scontrino alla cassa, please. Evitando di pensare che ciò che è toccato a lui, a voi non capiterà mai, vai poi a capire perché. Con sguardi soffici e complici, ci vendono un simulacro più stupido di un Rolex falso. Mica serve un genio per capire che Gainsbourg o Gainsbarre si nasce e si muore, diventarlo è impossibile. E che si fatica a edificarne la leggenda, a patto di disporre degli argomenti giusti. Gli altri sfoglino pure Paris Match, o Eva Express. Mormorando che solo una sventata come la Bardot poteva cedere le sue inarrivabili grazie a un tipo così poco raccomandabile. Con quella faccia da schiaffi e poi con quelle orecchie a sventola.

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