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L'editoriale dell'elefantino
Quanta eurofobia in giro per il mondo
Sarà perché questo blob di nazioni ha un nucleo di pietra dura che irrita il nuovo egemonismo autocratico
Eurofobia, il nuovo sentimento diffuso nel mondo. Trump ci detesta, siamo tutti scrocconi, la Spagna poi non ne parliamo, evita il contributo alle nuove spese Nato, si meriterebbe dazi in eccesso, una punizione speciale, e in più siamo velleitari nel nostro confine geopolitico del Mediterraneo, nel medio oriente, dove non contiamo e quando ci muoviamo è per il peggio. Putin, in proprio e attraverso uno dei suoi ideologi, molto anche con i suoi generali e diplomatici e anchormen, ha un atteggiamento provocatorio e distruttivo verso il retroterra della resistenza ucraina, il continente delle sanzioni più dure, il fronte renitente a una nuova Yalta, ci porta guerra blindata e territoriale e cyberguerra, polonio e ostilità ideologica, la crociata dei valori, delle minacce e dell’ideologia di stato. Per Mr Ping, come lo chiamava Di Maio, siamo un capitalismo globalizzato appetibile come mercato e partner da egemonizzare ma senza il partito unico e lo stato autoritario, due forze trainanti dello sviluppo e della società comunista cinese, ci manca il midollo spinale, siamo uno strano ente sovranazionale di partner autonomi uniti da pretese eccessive.
Governata da liberali e socialisti e conservatori vecchio stile o neomainstream, come in Italia, parlamentaristica e permissiva nei costumi, con una società civile forte e aperta, con minoranze populiste alle soglie del potere ma ancora tutto sommato impresentabili o impalatabili per il sistema di consenso prevalente, l’Europa con i suoi statisti e le sue élite piuttosto impopolari suscita una diffidenza generalizzata perché è troppo importante per essere trascurata, visto il profilo unitario che le danno il suo mercato unico e il suo esperimento istituzionale sovranazionale, e al tempo stesso troppo debole e frammentata per essere davvero temuta. Il vertice Trump-Putin a Budapest, considerato un territorio e un luogo politico extra Unione, è solo l’ultimo scappellotto diplomatico a Bruxelles, Londra, Parigi, le attuali bestie nere del Cremlino e della Casa Bianca. Quel sindacalista goffo che ha dato della cortigiana di Trump a Meloni, che lavora di concerto con Berlino, dovrebbe riflettere, se avesse gli strumenti per riflettere, sul fatto che questa volta non è italiano il classico piede in due staffe, una politica di equilibrio non è opportunismo o peggio ancora prostituzione politica. Al di là di tutto resta nell’aria questa sindrome che chiamiamo provvisoriamente, in mancanza di meglio, eurofobia. Con la globalizzazione in marcia e i democratici al potere negli Stati Uniti il sentimento antieuropeo era minoritario, si notava meno, non faceva storia. Ora è diverso.
Per consolarci, e per amore di verità, dobbiamo dire che alcune grandi manovre su energia e armi stanno faticosamente ridisegnando la sagoma imperfetta di un insieme di stati mercantili allo sbaraglio e in declino, esposti al disprezzo delle autocrazie e delle democrazie populiste. Il sostegno all’Ucraina è qualcosa che comunque resterà come premessa di una soluzione di compromesso per la famosa pace giusta e duratura, se mai sarà stipulato quel compromesso sull’asse Usa-Russia, e come testimonianza di esistenza in vita e anche di vitalità dell’Europa unionista e dei suoi criteri di difesa, di autonomia strategica e di libertà. La scommessa della Russia di Putin su Trump, uno e due, è riuscita a metà, come la guerra campale oltre i confini dell’ex impero sovietico, ma l’azzardo sulla divisione dell’Unione e sulla sua svendita della propria sicurezza, in una logica appunto mercantile, è decisamente fallito. Il risvolto positivo dell’eurofobia è che per certi aspetti essa nasce dal fatto che questo blob di nazioni penetrabile e in apparenza informe si è rivelato munito di un nucleo di pietra dura che sconcerta e irrita i campioni del nuovo egemonismo autocratico.