
In 62 giorni
In Alaska Trump si era offeso e si è messo ad aiutare Kyiv. Ora è tornata l'illusione del negoziato
La comunicazione della Casa Bianca non ha voluto denunciare l’intransigenza putiniana: è una delle regole di Trump quella di non ammettere mai i fallimenti. Il malinteso sullo “spirito dell’Alaska”. Come Putin ha usato il canale con Melania
Dal vertice in Alaska del 15 agosto alla telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin, giovedì, sono passati 62 giorni durante i quali il presidente americano è diventato più agguerrito nei confronti della Russia: ha detto di essere deluso dal presidente russo, ha formulato una specie di strategia per debilitare l’economia russa (chiedendo agli europei di smettere di comprare gas e petrolio russo: le sanzioni americane non sono state né aggiornate né rinforzate), ha dato il via libera all’Ucraina per colpire obiettivi militari ed energetici in territorio russo e ha condiviso informazioni di intelligence con gli ucraini, ha ventilato l’ipotesi di inviare missili a lunga gittata, i Tomahawk, a Kyiv e ha avuto un incontro “molto positivo” con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, durante l’Assemblea generale dell’Onu. Si è detto: “lo spirito dell’Alaska”, l’armonia conviviale ad Anchorage, è svanito. Ora sappiamo che in realtà non c’era mai stato.
La coreografia era stata devastante: i militari americani che distendono il tappeto rosso a Putin, le strette di mano calorose, i sorrisi, la camminata insieme, le battute con i giornalisti. Trump era convinto che ci fosse un’intesa con il presidente russo e che sarebbe riuscito a ottenere da lui quel che il suo odiato predecessore, Joe Biden, non era riuscito a ottenere: fermarlo. Ma Putin ha subito rifiutato l’offerta americana di un cessate il fuoco in cambio di un sollevamento delle sanzioni – ha raccontato il Financial Times – e ha dichiarato quel che tutti avevano capito, tranne Trump: la guerra finisce con la capitolazione dell’Ucraina e la cessione di territori del Donbas. Putin ha dato anche una lezione di storia, sempre la solita, con i principi medievali, Rurik di Novgorod e Yaroslav il saggio, e poi i cosacchi e tutto l’armamentario ideologico per dire che l’Ucraina non esiste, esiste solo la Russia. A quel punto Trump si è innervosito, ha alzato la voce, ha minacciato di andarsene, ha comunque tagliato corto i convenevoli: può non sapere nulla dell’ideologia putiniana o dell’economia della Russia o delle bugie che i russi dicono sulla loro forza sul campo, ma sa quando non c’è più nulla da dirsi. Le fonti che hanno parlato con il Financial Times, ucraine ed europee, dicono che c’era stato un ulteriore fraintendimento: l’inviato tuttofare della Casa Bianca, Steve Witkoff, era andato già cinque volte a Mosca, aveva incontrato Putin, ma non aveva compreso bene cosa intendessero i russi quando parlavano di “concessioni” territoriali (il fatto che la sua traduttrice fosse una funzionaria del Cremlino non ha aiutato). Questa incomprensione ha cambiato le aspettative di Trump sul vertice in Alaska: la Casa Bianca dice che non c’è stato questo fraintendimento, ma la disputa non è rilevante, a meno che non si voglia credere che Putin abbia mai voluto davvero un cessate il fuoco e la fine della guerra.
La comunicazione della Casa Bianca non ha voluto denunciare l’intransigenza putiniana: è una delle regole di Trump quella di non ammettere mai i fallimenti, e infatti nonostante non si fosse fatto nessun passo avanti, nessun comunicato, nulla, il presidente americano ha detto che l’incontro era andato bene e gli europei – assieme a Zelensky – si erano precipitati a Washington per cercare di contenere i danni. I russi hanno così avuto l’occasione per dire che gli europei avevano fatto deragliare il negoziato, ma a giudicare dalle dichiarazioni successive di Putin, e il suo corteggiamento nei confronti di un Trump sempre più duro (che si è fermato soltanto di fronte alla possibilità dell’invio dei Tomahawk), mostrano che il presidente russo sapeva che il vertice in Alaska era stata un’occasione mancata. Questo non lo ha fermato – non lo ferma nulla – e ha intensificato gli attacchi contro l’Ucraina. Ha fatto anche un’altra cosa: ha cercato di utilizzare la first lady americana, Melania Trump, a suo favore.
In Alaska, il presidente americano ha consegnato a Putin una lettera di sua moglie in cui chiedeva al presidente russo di rilasciare i bambini ucraini deportati in Russia – che sono migliaia. Julia Ioffe ha scritto su Puck: “Putin ha abilmente colto l’occasione di costruire una relazione con la first lady, che, come aveva detto Trump ai giornalisti, era la persona che gli ricordava, dopo ogni telefonata con il presidente russo, che Mosca continuava a bombardare le città ucraine ogni giorno. Perché non utilizzare la richiesta stessa della first lady per neutralizzarla, visto che era la guastafeste che sussurrava nell’orecchio di Trump?”. Mentre si cominciava a discutere seriamente dei Tomahawk, Melania ha dichiarato in pubblico di aver ottenuto la liberazione di otto bambini. Non tanti, ma abbastanza per dire che quel suo canale funzionava. Ma anche Putin ha ottenuto molto: Melania non ha più detto che i bambini erano stati “deportati”, ha usato il termine “trasferiti”, e ha anche detto che per molti non si trattava più di bambini, erano diventati maggiorenni, come a dire: ora possono scegliere loro dove stare. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha subito dichiarato che finalmente la first lady “ha capito che cosa sta davvero avvenendo con i bambini”, invece che ripetere “la propaganda” ucraina. E’ una vittoria piccola per Putin, scrive Ioffe, ma comunque una vittoria, e forse ora Melania non ricorda a suo marito gli attacchi russi, che continuano tutti i giorni.