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L'intervista

La storia di Elena, deportata tutta sola ad Auschwitz a undici anni raccontata da Fabrizio Rondolino

Nicola Mirenzi

L'ex spin doctor di D'Alema ed ex consigliere di Matteo Renzi racconta la tragica storia di sua cugina di secondo grado, portata nel campo di concentramento in Polonia nel 1944. Un libro

Furono circa 220 mila i bambini ebrei deportati ad Auschwitz. Nessuno però come Elena Colombo. Meno di undici anni, caricata, il 5 aprile 1944, su un treno diretto in Polonia dal campo di concentramento di Fossoli, senza i genitori, deportati tre mesi prima, senza altri parenti, conoscenti, amici. Completamente sola. Mentre le famiglie venivano solitamente portate via in blocco, dal nonno fino all’ultimo nipotino. Lei, invece, no: sola. La storia la racconta oggi, per la prima volta, suo cugino di secondo grado, Fabrizio Rondolino, in un libro dallo stile asciutto, senza aggettivi, e perciò incandescente di non detto: Elena. Una bambina sola nella Shoah (Giuntina). Indagine storica sulla deportazione del fratello di sua nonna, Sandro, della moglie Wanda, e, appunto, della piccola Elena. Ma anche tentativo morale di restituire all’umanità, attraverso la forma letteraria, una bambina e una famiglia ridotte prima a numero, e poi in cenere.
 

“Scrivendo questo libro”. dice Rondolino al Foglio, “ho anche voluto ritrovare le mie radici ebraiche”. Tanto da aver iniziato a studiare l’ebraico biblico e a seguire dei corsi di Torah. “Sebbene per la legge rabbinica, che è matrilineare, io non sia ebreo, per la Legge del ritorno, invece, avrei il diritto di chiedere la cittadinanza israeliana”. Cosa che non esclude di fare. Perché così si sente, oggi: “Un orgoglioso potenziale cittadino d’Israele”.
 

Storico giornalista dell’Unità, poi spin doctor di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi e consigliere di Matteo Renzi, oggi vive lontano dalla politica, nella campagna della Sabina, ma la politica e l’attualità c’entrano, e molto, anche con questo libro intimo. “Avevo smesso di scriverlo”, racconta, “dopo aver letto le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah. Ne ho lette più che potevo. Ma, a un certo punto, mi sono sentito sopraffatto. Non ho retto più. Quel passaggio ricorrente dalla normalità al baratro dei campi di concentramento: non riuscivo a sopportarlo”.
 

Le testimonianze gli servivano per immergersi nel contesto di una storia, quella di Elena, di cui in famiglia si era sempre parlato poco. Senza mai scendere nei dettagli. E per conoscere se, in Italia, c’erano stati episodi simili a quello di Elena. Poi, quando la storia era stata accantonata, è arrivato il 7 ottobre. “E mi è sembrato che fosse improvvisamente diventata realtà la preoccupazione dell’ultimo Primo Levi, il Primo Levi che diceva: ‘Attenzione, è successo una volta, può succedere ancora’. Ed ecco: era successo di nuovo, erano di nuovo andati a prenderli casa per casa, gli ebrei”.
 

Elena l’avevano catturata insieme ai suoi genitori nel dicembre del 1943, nel Canavese, in Piemonte, dove erano riparati. I tedeschi stavano risalendo la montagna. Rastrellavano a tappeto. A chiunque non fosse vestito da contadino, chiedevano se fosse ebreo. Così probabilmente fermarono Sandro e poi tutta la famiglia. Li chiusero in una stalla. Insieme ai partigiani arrestati e picchiati. Senza cibo, acqua e coperte, al freddo. Poi li portarono a Torino, all’albergo Nazionale, il quartier generale della Gestapo. “E qui avviene un fatto che è un mistero”. Elena viene separata dai genitori. Affidata, da un ufficiale italiano delle SS, alla famiglia De Munari, con cui i Colombo avevano trascorso le ultime vacanze estive. “Forse fu un tentativo di salvarla dalla deportazione, oppure fu solo per risparmiarle il carcere”. Non si saprà mai. E’ un fatto che  il 25 marzo, lo stesso giorno in cui il padre Sandro viene spinto nella camera a gas di Auschwitz, Elena viene nuovamente arrestata dalle SS. “Un caso unico nella Shoah italiana”. E forse anche europea. “In Francia, Polonia, Cecoslovacchia ci furono treni di soli bambini. Ma una bambina che abbia affrontato il viaggio da sola, no, non c’è al momento nessun altro caso documentato”.
 

Proprio in Italia una cosa così crudele? “Già”. E gli ‘italiani brava gente’? “Ci sono stati i giusti, anche da noi. Ma la maggior parte degli italiani si voltò dall’altra parte. Non li giudico. L’indifferenza è un meccanismo di difesa naturale. Comprensibile. Umana. Ma a distanza di tanto tempo non ci si può nascondere dietro la mitologia della diversità italiana. Li abbiamo ammazzati anche noi gli ebrei. Eccome se l’abbiamo fatto”.
 

E questa cosa sta succedendo di nuovo? “No. Ma sta succedendo che un ragazzino ebreo, oggi, rischia di essere preso a botte nelle strade di Roma se indossa la kippah. Sta succedendo che in un corteo con la sinistra istituzionale si inneggia al 7 ottobre, pura caccia all’ebreo. Sta succedendo che Francesca Albanese dileggi Liliana Segre dicendo che essere stata deportata la condiziona emotivamente, le fa perdere la lucidità”. Pausa. “Una cosa così quando c’era il Pci non sarebbe mai successa”.
 

Ma il Pci non era il primo dei partiti filopalestinesi? “Sì, ma c’era dentro anche Umberto Terracini, un grande amico d’Israele. Ma pure Occhetto andò in visita in Israele, quando era primo ministro Shimon Peres. C’era, e per fortuna c’è ancora, Fassino. Insomma, è sempre esistita una sensibilità di sinistra nei confronti di Israele. Non è questo il punto. Il punto è che nella tradizione del Partito comunista italiano una come Albanese non l’avrebbero fatta entrare nemmeno in una sezione di provincia”.  E perché? “Perché le porte, agli estremisti, gliele chiudevamo in faccia. Io ero a Torino nel ’77. Un anno prima del sequestro e l’uccisione di Moro. Noi giovani comunisti stavamo da una parte, gli autonomi stavano dall’altra, era impossibile confonderci”.
 

Ma cosa avrebbe dovuto fare la Schlein? “La segretaria di partito. Ecco cosa avrebbe dovuto fare”. Cioè? “Stroncare sul nascere certi sentimenti, questo fa una classe dirigente”. Per esempio, come? “C’è in piazza lo striscione che celebra il 7 ottobre? Bene. Tu dici agli organizzatori: ‘O esce quello striscione, oppure dal corteo usciamo noi’. Altro che far finta di non sentire il coro ‘la pace si fa coi razzi da Gaza a Tel Aviv’. Tutti a minimizzare. ‘Ma che vuoi che sia’. ‘Vabbè, so’ ragazzi’. Invece, tu con quelli nella stessa piazza non ci devi stare per nessuna ragione al mondo”.
 

Ma c’è anche gente non esagitata come David Grossman che accusa Israele di genocidio. “Sì, è vero, ma, con enorme rispetto, mi permetto di non essere d’accordo con Grossman. L’obiettivo di Netanyahu era estirpare Hamas. Anche a costo di uccidere un alto numero di civili. E’ atroce. Ma il genocidio è un’altra cosa”. Eppure il concetto è passato. Soprattutto a sinistra. Anche grazie a Grossman. “Ma mi chiedo dove fossero, tutti questi amanti di Grossman, quando, insieme a un gruppo di letterati ebrei, proprio Grossman accusò la sinistra occidentale di non provare alcuna empatia per le vittime israeliane”.
 

L’obiezione è che invece l’abbiano fatto, che abbiano pianto i morti israeliani, quando dovevano, e ora piangono quelli palestinesi. “Ma è possibile non riuscire a capire cosa sia stato davvero il 7 ottobre? Cos’abbia significato, per un popolo che si è dato uno stato per proteggersi finalmente da persecuzioni millenarie, essere ammazzati dentro casa? Non su un autobus. Mentre andavano al lavoro. O in vacanza. Sono andati a prenderli uno per uno, nelle case. E’ difficile capire che nella psiche del popolo israeliano si sono risvegliati tutti i peggiori fantasmi?”. No, non è difficile. “E allora tu, se hai un amico che ha subito un trauma, e vedi che quel trauma riemerge di colpo, tu al tuo amico gli dai una carezza, non uno schiaffo. Invece, a Israele la sinistra ha dato solo schiaffi, sempre lì con il dito puntato”.
 

Veramente si può trattare Netanyahu con le carezze? “Ma tu le carezze le devi dare al popolo israeliano, allo stato israeliano, non a Netanyahu. Netanyahu devi costringerlo, come ha fatto Trump, a firmare un accordo politico. Fatto ciò, ora saranno gli israeliani stessi i primi a pretendere che si accertino le responsabilità del buco nella sicurezza che c’è stato il 7 ottobre. Saranno i primi ad accertare e a condannare gli eventuali crimini di guerra commessi dal proprio esercito. Ma tu devi dirgli, innanzitutto, che hanno il diritto di vivere in pace. Di essere sicuri nelle loro case. Soprattutto se nelle camere a gas ce li hai portati tu. Tu italiano. Tu europeo. Dopo che i tedeschi hanno avuto l’idea. Il resto l’abbiamo fatto noi. Anche solo voltandoci dall’altra parte, quando prendevano una bambina come Elena, la caricavano su un treno e la portavano a morire, sola, ad Auschwitz”.