(foto Ansa)

l'editoriale del direttore

Il mistero buffo dei pro Pal che perdono improvvisamente la voce

Claudio Cerasa

Free Gaza, Free Palestine. Chissà perché, per i pacifisti più esagitati, è più difficile dirlo oggi che lo stato palestinese è possibile e passa dalla rimozione di Hamas

Non c’è mai stato un momento migliore di questo, nella storia recente del medio oriente, per essere con forza, con sincerità e con energia dalla parte della causa palestinese, dalla parte della famosa autodeterminazione di un popolo, dalla parte di chi sogna legittimamente di trasformare le strisce di terra abitate dai palestinesi in uno stato vero e proprio. La Palestina libera, oggi, grazie al piano di pace di Trump, è un obiettivo credibile, è un traguardo possibile, e proprio oggi che essere pro Pal è qualcosa di diverso da un’utopia, succede che il movimento pro Pal, improvvisamente, ha perso consistenza, ha perso motivazioni, ha perso la sua ragione d’essere. Non va più di moda, tra i pro Pal, essere pro Pal con tutta la forza possibile e con tutta l’energia necessaria, perché essere pro Pal oggi comporta uno sforzo diverso rispetto a quello che serviva qualche settimana fa prima del piano di pace di Trump.

 

Essere pro Pal, fino a qualche giorno fa, significava scendere in piazza per protestare contro Israele e significava conseguentemente scaricare sullo stato ebraico – e magari anche sugli ebrei – ogni genere di colpa sulla guerra che non finiva, sulla pace che non si vedeva, sull’autodeterminazione che non arriva. Essere pro Pal oggi, invece, è decisamente più complicato, perché se si assume che il piano di pace di Trump –  piano che dovrebbe piacere ai pacifisti, anche quelli più esagitati – è un piano che ha permesso agli ostaggi di tornare a casa, e ai prigionieri custoditi nelle celle di Israele di tornare nelle proprie terre, se si assume tutto questo non si può non riconoscere che ogni prospettiva futura dei territori palestinesi, compresa la loro famosa autodeterminazione, è legata a un passaggio che stranamente i pro Pal non hanno messo a fuoco con la forza, l’energia e la passione che era lecito aspettarsi. Lo stato palestinese, come è previsto dal piano di Trump, non è garantito da subito, ma è subordinato a una “transizione” legata ad alcuni passaggi. I passaggi principali sono quelli che forse conoscete. Hamas deve accettare di disarmarsi, di ritirarsi, deve permettere la nascita di un’amministrazione controllata da tecnocrati o in subordine da un’Autorità palestinese riformata. Al contrario, se Hamas mantiene il potere o ricomincia la guerra, il processo resta bloccato, perché nessun governo occidentale o arabo finanzierebbe la ricostruzione o il riconoscimento di uno stato gestito da un gruppo terrorista. La nascita di uno stato palestinese, dunque, dipende dalla fine di Hamas. E non ci sarebbe in effetti momento migliore per essere pro Pal oggi perché essere pro Pal in questo momento non significa più semplicemente maneggiare l’algoritmo del genocidio nazificando Israele, ma significa usare tutta la forza possibile, quella delle occupazioni e delle manifestazioni e delle flotille, per esercitare la massima pressione sui terroristi che hanno in mano il destino dello stato palestinese.

 

Dunque, sì. E’ il momento di spendersi per l’autodeterminazione del popolo palestinese, è il momento di dimostrare che chi voleva la nascita dello stato palestinese anche quando gli ostaggi erano ancora nelle mani di Hamas lo vuole anche ora che gli ostaggi sono liberi, è il momento di dimostrare che chi in questi mesi ha portato il proprio impegno civile in ogni dove per difendere la causa palestinese non ha alcun imbarazzo a utilizzare contro Hamas gli stessi toni duri utilizzati contro Israele, è il momento di dimostrare che il pacifismo può scommettere sulla pace anche quando i nemici da combattere non hanno i vessilli dell’occidente, è il momento di dimostrare che i movimenti pro Pal erano contro tutte le violenze, erano davvero desiderosi non di cancellare Israele, dal fiume al mare, ma di permettere ai palestinesi di avere un futuro e di non essere ostaggi di chi li voleva e forse li vuole ancora utilizzare un domani come scudi umani. Free Gaza. Free Palestine. Pro Pal. Chissà perché oggi, per i pacifisti più esagitati, è più difficile dirlo rispetto a qualche mese fa.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.