Foto Ansa

Verso il bilaterale

Così Orbán vuole spremere tutto il possibile da Trump e Putin

Paola Peduzzi

Isolato in Europa, il premier ungherese si sente di nuovo al centro del mondo, proprio come ha sempre desiderato. Ora vuole riprendersi tutto, popolarità, prestigio, regia, piazza

A Viktor Orbán non pare vero, nel giro di poche ore ha parlato al telefono con Donald Trump e con Vladimir Putin, la sua "isola di pace", come ha definito la sua Ungheria, è stata scelta come il luogo del secondo incontro tra il presidente americano e il presidente russo, e lui gongola, mette sui social la foto con il pugno alzato in segno di vittoria, si sente benedetto e allo stesso tempo riscattato, ve l'avevo detto che ero io l'uomo di pace.

  

Affondato nei sondaggi in vista delle elezioni del prossimo anno, isolato in Europa per la sua costante ostilità – ma dei soldi europei ha bisogno, Orbán, così come di quelli russi e di quelli cinesi: una cleptocrazia come la sua, con tanto di zebre in giardino, non si sostenta con l'ideologia – e graziato dalla Nato che, per non sentirlo sempre borbottare, gli ha concesso di non essere più terra di passaggio per le armi che vanno in Ucraina, il premier ungherese si sente di nuovo al centro del mondo, proprio come ha sempre desiderato. "A volte, quando ti sembra di essere da tempo in contromano in autostrada, Dio ti manda un segnale e ti conferma che sei tu quello nella direzione giusta – ha detto Orbán alla radio – Budapest è di fatto l'unico luogo in Europa in cui questo vertice possa avere luogo".

 

Perché questa è "l'isola della pace", appunto, il premier ungherese si è messo a capo di questo fallace partito della pace che è sempre stato un movimento ostile all'Ucraina, alla sua difesa, alla sua resistenza, che si è allargato coinvolgendo tutti i finti pacifisti dentro e alle porte dell'Europa e si è invece incancrenito in una guerriglia di spie arrestate tra ucraini e ungheresi e negli occhi puntati sulla Transcarpazia, la regione ucraina in cui vivono moltissimi ungheresi. Ora Orbán vuole riprendersi tutto, popolarità, prestigio, regia, piazza – ce ne saranno due concomitanti il 23 ottobre, quando inizia la commemorazione della rivoluzione ungherese del 1956 repressa dai sovietici: quella del premier e quella del suo rivale, avantissimo nei sondaggi, Péter Magyar.

 

Orbán aveva iniziato molto presto a fare il pontiere fra Trump e Putin. Nel marzo dello scorso anno, il premier ungherese era andato a Mar-a-Lago a dare il suo endorsement al candidato Trump e una volta tornato a casa aveva dichiarato: mi ha detto che, una volta tornato presidente, "non darà nemmeno un penny" all'Ucraina. Da lì tutti gli antiucraini si erano saldati, il Congresso americano aveva tenuto in stallo il finanziamento a Kyiv, i finti pacifisti europei si erano allineati a Orbán, il quale si è messo di traverso su tutto quel che riguarda l'aiuto europeo all'Ucraina – soldi, armi, accesso – rallentando una macchina non scattante e poi spesso capitolando, anche fingendo di andare in bagno durante le votazioni, sempre per quel piccolo particolare che l'economia ungherese, centralizzata e corrotta, non sta in piedi da sola.

 

Trump ha sempre concesso molto credito al premier ungherese – idolatrato dal mondo Maga, sia quello con le corna sia quello dei centri studi – e anche di recente, quando ha detto di voler mettere le sanzioni alla Russia soltanto quando gli europei smetteranno di comprare risorse energetiche dalla Russia, ha fatto finta di non vedere che il principale acquirente è proprio Orbán. E sì che il suo ministro degli Esteri sta più a Mosca che a Budapest, e posta foto, strette di mano: non vuole certo nascondere questa liaison. Che si è rafforzata durante la telefonata fra il premier e Putin, durante la quale sono riusciti a coniare un'espressione che indica bene il fatto che  la pace non riguarda l'Ucraina: il presidente russo ha detto a Orbán che dovrà discutere con gli americani "dell'algoritmo per le prossime azioni". Del resto Budapest, per gli ucraini, è collegata al memorandum che porta il nome della città: fu firmato nel 1994 dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e anche dalla Russia e garantiva sicurezza e integrità territoriale all'Ucraina.

Di più su questi argomenti:
  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi