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l'analisi

Il fallimento del Green Deal europeo

Chicco Testa

La riduzione delle emissioni è stata insignificante rispetto alle dimensioni globali del problema. L’industria non ne ha tratto alcun vantaggio, anzi è stata penalizzata. I costi sono stati consistenti, e pure le pressioni politiche. Un’indagine

Diciamo subito con la necessaria chiarezza. Necessaria in questo momento dove non c’è più tempo da perdere. Il Green Deal europeo è stato un fallimento. La legislatura europea nel periodo 2019-2024 sarà probabilmente ricordata dagli storici come il periodo della “grande distrazione”. O, se preferite, dell’incoscienza. Quasi un prolungamento dell’età adolescenziale, nonostante le istituzioni europee abbiano ormai un’età veneranda, in cui ci si può dedicare a coltivare desideri, anziché affrontare le responsabilità che la vita e la storia inevitabilmente ti consegnano. Ma il risveglio è stato brusco. 

 

Negli ultimi due anni il mondo è totalmente cambiato. Il dibattito della scorsa legislatura è stato completamente dominato dei temi legati al Green Deal, o transizione ecologica. Il commissario di gran lunga più importante è stato Frans Timmermans, che ha dettato più della metà dell’agenda europea. Ora, nel giro di poco tempo l’Europa ha dovuto fronteggiare temi completamente inediti e urgenti: la guerra ai suoi confini, il ciclone Trump e la guerra commerciale da lui scatenata, la perdita verticale di competitività dell’industria europea in settori industriali che ne hanno fatto la storia. Ma la domanda è: come è stato possibile che le maggiori forze politiche europee non abbiano colto nessun avvertimento di quanto stava per succedere, nonostante segnali evidenti come l’invasione della Crimea? Come è stato possibile che ci volesse il rapporto Draghi per rivelare lo stato di crisi di interi comparti dell’industria europea, la caduta verticale della competitività, il ritardo accumulato e ormai irrecuperabile in decisivi settori tecnologici?

 

E allora vediamo che cosa è stato il Green Deal europeo e cerchiamo di capire quale potrà essere il suo futuro

 

Il GD è stato innanzitutto l’elemento unificante della cosiddetta maggioranza Ursula.  L’alleanza fra popolari, socialisti, verdi e liberali, forze non proprio omogenee, ha trovato nel GD il proprio collante ideologico, con la benedizione di Angela Merkel.

 

Gli obbiettivi dichiarati erano due. Impostare una politica di riduzione delle emissioni di CO2 e combinare con questo obbiettivo quello di acquisire posizioni di leadership tecnologica nei nuovi settori che si sarebbero aperti.

 

Il primo obbiettivo è stato parzialmente raggiunto. Non per i target previsti dalla Ue, il meno 55 per cento al 2030, rispetto al 1990,  sicuramente  irraggiungibile, ma comunque con una importante riduzione delle emissioni che nel 2025 si dovrebbe attestare a meno 39 per cento. Questa dei target fissati dalla Ue è una storia assurda. I consuntivi dicono ripetutamente che essi non possono essere raggiunti perché si accumulano ritardi dovuti a oggettive difficoltà. E quale è la risposta? I target vengono rivisti al rialzo. Un po’ come un saltatore in alto che avendo  fallito più volte su una certa misura chiede di alzare l’asticella ancora più su. Cosa che la Ue ha fatto più volte.

 

Inoltre c’è un problema. Come è noto la questione delle emissioni climalteranti ha una dimensione globale. E’ il conto totale a livello mondiale che fa la differenza. E questo ci dice che mentre l’Europa diminuiva le sue emissioni, esse continuavano a crescere nel mondo anno su anno, con eccezioni negli anni della recessione generata dalla crisi dei subprime e negli anni del Covid. Per poi riprendersi immediatamente con la ripresa economica. Il 2024 ha segnato il picco storico massimo delle emissioni. In termini quantitativi mentre l’Europa ha ridotto le sue emissioni di 1,7 miliardi circa di tonnellate esse globalmente  sono cresciute di circa 18 miliardi, 10 volte di più,  nel resto del mondo. E non poteva  essere diversamente visti i tassi di crescita economica di molti paesi, India e Cina in primo luogo.  Situazione poi aggravata dall’uscita degli Stati Uniti dagli impegni assunti a Parigi. Inoltre buona parte della riduzione europea è dovuta alla delocalizzazione di produzioni ad alta intensità di CO2 in aree extraeuropee, In altre parole: produciamo  meno CO2  a casa, ma ne importiamo di più sotto forma di prodotti  e materiali che importiamo perché  non li  realizziamo più in Europa. L’Europa ha confuso sé stessa con il resto del mondo, ha ritenuto che ciò che pensava fosse buono per sé lo sarebbe stato  anche per il resto  del mondo. Il quale invece nella sua stragrande maggioranza, praticamente tuti i paesi fuori dall’area Ocse, dove vive la larga maggioranza dell’umanità, ha soprattutto  bisogno di crescere economicamente per conquistare standard minimi  di benessere. E crescere significa innanzitutto disporre di maggiori quantità di energia  affidabile e continua e di produzioni industriali. Le due cose insieme significano inevitabilmente maggiori emissioni. 

 

Ma diminuire le emissioni, come ha fatto l’Europa, sembrerebbe comunque cosa buona in sé. Ma nulla è buono di per  sé, se non se ne valutano insieme i costi e il tempo. Quanto ha pagato l’Europa questa riduzione? Vediamo.

   

Il secondo obiettivo, quello che doveva giustificare l’enorme investimento politico ed economico sul GD, è completamente fallito. Anzi si è rivelato una disfatta. L’Europa non ha conquistato alcuna leadership in alcun settore tecnologico legato alla transizione ecologica. Anzi, l’Europa ha costituito in questi anni un enorme mercato, spesso potenziato dagli importanti incentivi pubblici concessi ad alcune tecnologie, fondamentalmente per le esportazioni cinesi, che anche grazie a noi hanno conquistato un ruolo dominante in tutte le tecnologie decisive. La Cina produce  fra l’80 e il 90 per cento di tutte le  componenti per l’energia solare, stessi numeri per quanto riguarda le batterie, i primi quattro produttori mondiali sono cinesi, sia per l’alimentazione delle auto elettriche sia per gli accumuli e  “pesa” per il 70 per cento nelle turbine eoliche. Per non parlare delle posizione dominante in tutti i materiali  critici per la transizione, litio, cobalto, rame, nichel, terre rare, grazie alla combinazione fra il controllo su alcune miniere, principalmente  in Africa, e  lo sviluppo di un apparato industriale di raffinazione di questi materiali, con quote sempre superiori al 50 per cento e talvolta vicine al 100 per cento. Persino la furia tariffaria di Trump ha dovuto rallentare di fronte alla minaccia cinese di mettere l’embargo sulla esportazione di alcuni di questi materiali. 

 

In compenso abbiamo registrato crolli drammatici in settori che costituisco l’ossatura essenziale di un paese industriale. I dati Eurostat sono impietosi: produzione di acciaio fra 2005 e 2024 meno 35 per cento, raffinazione di petrolio meno 25 per cento, cemento meno 38 per cento, ceramica, un’eccellenza italiana, meno 50 per cento. Per quanto riguarda l’Italia dovremmo aggiungere la quasi scomparsa della chimica di base. La perdita complessiva di posti di lavoro nei settori colpiti dal GD si aggira  intorno alle 600.000 unità. E le previsioni sono ancora più nere. E’ chiaro che non tutti questi fenomeni sono da attribuire solo alle conseguenze del GD, ma certamente una parte importante su questi settori l’hanno giocata e la giocano le tasse ambientali imposte (Ets)  che sono previste aumentare nei prossimi anni e la “colpevolizzazione ” collettiva di questi tradizionali e importanti settori industriali, si pensi fra gli altri al settore minerario, considerati poco sexy dal punto di vista green e bollati come il vecchio che deve scomparire. Ma un mondo senza acciaio e cemento semplicemente non esiste o per meglio dire non si regge letteralmente  in piedi. Senza i settori dell’industria di base, soffrono tutte le filiere manifatturiere e parlare di competitività e autonomia strategica europea pare un ossimoro.

 

Per tutti gli anni della scorsa legislatura, l’Europa ha poi cercato di uccidere definitivamente una delle poche eccellenze europee nel campo energetico, vale a dire il nucleare francese e quel che resta del nucleare europeo. Vale la pena ricordare che esso fornisce ancora il 25 per cento dell’energia elettrica europea, completamente priva di emissioni e con un livello di dipendenza dall’estero che si riduce alle modeste quantità di combustibile nucleare necessario e reperibile in varie  parti del mondo. Il nucleare è stato escluso dalla tassonomia verde europea e solo recentemente è stato riammesso. C’è  voluta la crisi dei prezzi dell’energia conseguente alla scelta di embargo sul gas russo per fare capire che non potevano certo rinunciare al nucleare. Nel frattempo la Germania  ha provveduto a chiudere le ultime tre centrali nucleari perfettamente funzionanti e a sostituirle  solo in parte  con le rinnovabili e in gran parte con un  aumento della produzione a carbone e a lignite. 

 

Si parla poco del ruolo della Germania, che invece ha condizionato enormemente tutta questa vicenda. In tre modi. In primo luogo Angela Merkel ha cercato di neutralizzare la spinta elettorale dei Grünen, sposando larghe parti del loro programma compresa l’uscita dal nucleare. In secondo luogo ha provocato l’estrema dipendenza dell’Europa dal gas russo. Cosa giustificabile fino a quando sembrava possibile attrarre la Russia nell’ambito di collaborazione pacifica con l’Europa, ma ingiustificabile dopo la Crimea e altri episodi di espansionismo. Ricordo che ancora poco prima della crisi definitiva causata dall’attacco all’Ucraina si stava per collegare, nonostante i ripetuti avvertimenti dell’Amministrazione Biden, un secondo metanodotto, il Southstream  2, che avrebbe portato in Europa altre decine di miliardi  di metri cubi di gas, aumentandone la dipendenza. Un errore geopolitico drammatico in complicità con l’ex cancelliere della Spd, Gerhard Schröder, in affari con i russi.  In terzo luogo spostando la posizione dei popolari tedeschi ed europei verso  una postura molto ideologica e innaturale, perché ben lontana dal pragmatismo tipico di quella forza, pur di dare vita alla maggioranza Ursula.

   

Il caso forse più clamoroso fra i tanti errori commessi riguarda l’auto. La Ue com’è noto ha approvato una disposizione che proibisce la vendita dei tradizionali motori termici dopo il 2035. E’ bene sottolineare che il traffico privato oggetto del provvedimento pesa per circa il 13 per cento sul totale delle emissioni europee che a loro volta pesano per circa il 6 per cento sul totale delle emissioni mondiali. Quindi si tratta di una riduzione, quando esse fossero completamente azzerate, certamente non prima della fine del secolo, che peserebbe  per meno dell’1 per cento  delle emissioni mondiali. Ammesso che tutta l’energia elettrica necessaria fosse prodotta solo con fonti a zero emissioni. Ora, se c’era una leadership tecnologica forte nel mondo era proprio quella delle case automobilistiche europee nei motori termici sia a benzina che alimentati a diesel. Con prestazioni sempre migliori sia in termini di consumo che di emissioni. La decisione è stata particolarmente grave non solo perché ha gettato nel panico l’industria automobilistica, ma perché ha infranto un principio fondante delle politiche green, dichiarato anche a livello europeo.  Quello della neutralità tecnologica. Vale a dire: non importa quale tecnologia si usa purché serva a ridurre le emissioni. Cosa che si può fare in vari modi, per esempio aumentando ancora l’efficienza dei motori o alleggerendo il peso delle vetture grazie ai nuovi materiali o usando combustibili alternativi  come i biocombustibili, che l’Europa ancora si rifiuta di riconoscere e di cui per altro l’Italia è leader. O anche accelerando la sostituzione di modelli vecchi – l’Italia ha un parco auto fra i più vetusti – con modelli nuovi e più performanti dal punto di vista ambientale. Le case automobilistiche europee hanno dovuto gioco forza spostarsi sull’elettrico, praticamente l’unica tecnologia accettata, con scarsissimi risultati di vendita, che non compensano minimamente  le perdite nei motori tradizionali

   

Ma quel che è successo dopo è ancora più paradossale.  Perché si è scoperto – ma era poi così difficile prevederlo? – che le migliori auto elettriche per costo e prestazioni sono quelle cinesi. Cosa del tutto naturale avendo la Cina una leadership assoluta nelle batterie. Per cui si è provveduto a mettere dazi sulle auto cinesi, mentre i cinesi rispondono aprendo un paio di stabilimenti in Europa, con buona pace del protezionismo tariffario. Cosa analoga sta succedendo anche per i pannelli solari. Nell’uno e nell’altro caso il risultato è un aumento dei costi di oggetti, le auto elettriche e i pannelli, che sono promossi proprio dalle politiche europee. Non solo un caso di schizofrenia, ma soprattutto un’imprevidenza e mancanza di lungimiranza incredibili. Ma come se non bastasse questo provvedimento, a esso si sono aggiunti limiti sempre più restrittivi sulle emissioni ordinarie. Il risultato è stato uno spostamento delle case produttrici verso modelli di media e alta gamma, gli unici in grado di assorbire maggiori costi, con la quasi scomparsa dei modelli di fascia bassa. 

   

Imprevidenza? Purtroppo raramente le decisioni europee sul GD e l’introduzione forzata di tecnologie verdi sono accompagnate da studi approfonditi sulle conseguenze economiche e occupazionali. Sono piuttosto un atto di fede sul fatto che buttando avanti la palla qualcuno prima o poi la metterà in porta. Prima o poi. Solo che il fattore tempo è  un’altra variabile che andrebbe attentamente considerata perché nel tempo incorrente fra il prima e il poi  il paziente può anche morire. E’ veramente incredibile che una burocrazia potente ed estesa come quella europea non sia mai in grado di stimare le conseguenze economiche delle proprie azioni. Anche perché la domanda successiva a cui occorre rispondere è: chi paga? E chi ha pagato fino ad ora? 

 

La retorica europea ripete ad ogni piè sospinto che la transizione deve essere giusta e non lasciare indietro nessuno. Ma è andata veramente così?

 

Concentriamoci sul caso italiano, anche se ci sono situazioni assai simili in quasi tutti i paesi europei, a cominciare dalla Germania.

 

Le bollette elettriche sono state gravate da più di 200 miliardi di euro di incentivi alle fonti rinnovabili. Che hanno pesato prevalentemente sulle famiglie e quindi in particolare, trattandosi di fatto di un’imposta indiretta con caratteri fortemente fiscalmente regressivi, in modo  più pesante sulle fasce più povere. 

    

L’auto, il caso più  clamoroso fra i tanti errori commessi.  La sinistra ha fatto  della transizione un totem ideologico che ha sostituito le vecchie  ideologie. I barbari sono alla porte, ma finalmente le nostre cannucce sono biodegradabili

   

Inoltre lo sviluppo delle rinnovabili, prevalentemente al sud, costringe a investimenti importanti nelle reti di trasmissione e all’installazione di grandi quantità di batterie. E al mantenimento di una capacità di riserva anch’essa assai costosa. Tutti oneri che finiscono in bolletta con effetti fiscali regressivi. 

 

A ciò in Italia abbiamo aggiunto in nome dell’efficientamento il Superbonus 110 per cento, costato circa 150 miliardi, di cui hanno goduto quasi esclusivamente o i possessori di case unifamiliari o piccoli condomini del ceto medio-alto. Non risultano se non in pochissimi casi interventi che siano stati effettuati nei grandi caseggiati delle periferie urbane o nelle case popolari. In compenso abbiamo sottratto, per la necessità di iscrivere a debito i crediti di imposta derivati dal

 

Superbonus, decine di miliardi di euro che potevano essere destinati alla spesa sociale e agli investimenti.  Poi c’è l’auto elettrica, Un mercato di fatto riservato ai possessori di garage privati con possibilità di autonoma ricarica o a city user  che percorrono pochi chilometri al giorni in ambito urbano. Assolutamente non usabili da pendolari con medie percorrenze o da chi comunque usa l’auto per lavoro. Con consistenti incentivi, gli ultimi in arrivo in questi giorni,  destinati ai compratori dell’elettrico, anziché aiutare a svecchiare il parco auto italiano con uguali vantaggi ambientali, ma con qualche beneficio sociale in più.

 

Secondo una direttiva europea, poi fortunatamente sospesa, ma ancora in lavorazione, si sarebbe dovuto procedere inoltre all’efficientamento solo in Italia di quasi 10 milioni di abitazioni con classi energetiche basse, praticamente le case prevalentemente abitate da ceti popolari, con spese nell’ordine di decine di migliaia di euro per ogni abitazione. Anche in questo caso occorre domandarsi su quali studi si sia basata una direttiva di questo genere. Un’analisi accurata svolta da Utilitalia ha censito la tipologia degli appartamenti italiani, le superfici medie e la tipologia. Nel 70 per cento dei casi, prevalentemente ancora abitazioni popolari, risulta letteralmente impossibile a causa delle dimensioni, il 60 per cento delle abitazioni sta sotto i 100 metri quadrati, e di alcune condizioni necessarie, installare una pompa di calore, vale a dire il principale strumento che dovrebbe garantire il miglioramento ambientale  dei riscaldamenti domestici. E la spesa necessaria solo per gli edifici con le peggiori prestazioni si aggira intorno ai 320 miliardi.Sempre sul lato dei costi va considerata la madre di tutti i problemi, vale a dire la disciplina europea sui permessi di emissione e di scambio della CO2 (Ets).  Senza addentrarci in troppi particolari, si tratta di una tassa sulla CO2 emessa da alcuni settori industriali, guarda caso tutti quelli citati con le maggiori riduzioni dei livelli produttivi. Una parte di queste emissioni sono concesse gratuitamente e una parte va trovata sul mercato. Per il momento, perché la disciplina europea, se non viene rivista, prevede la fine della gratuità entro il 2035  e l’estensione a settori non ancora coinvolti.  La cosa avrebbe un senso se si trattasse di un regime adottato dalla maggior parte del mondo. Ma nessuno ci ha seguito e siamo rimasti soli.  Ragion per cui le nostre imprese si trovano a competere con uno svantaggio competitivo enorme. Le conseguenze: perdita di produzione, di quote di mercato e delocalizzazione degli impianti in paesi con regimi più favorevoli. La sua recente applicazione, gennaio 2024, al trasporto marittimo, per esempio, ha la conseguenza di favorire le attività portuali al di fuori dell’Unione europea. 

 

Per rimediare parzialmente a questa situazione si è pensato di introdurre una tassa sull’importazione di alcuni prodotti basata sul loro contenuto di carbonio quali acciaio, cemento, acciaio, fertilizzanti… Il che implica una contabilità da mal di testa, altro che le auspicate semplificazioni, calcoli astrusi, guerre commerciali, perché alla fine di un dazio si tratta, di cui dopo le tariffe di Trump non si avverte proprio la necessità, e naturalmente di un aumento dei prezzi interni all’Unione con effetti inflattivi e regressivi che ancora una volta colpiscono i ceti meno abbienti. E’ straordinario come la sinistra non riesca nemmeno lontanamente a vedere questi fatti evidenti che colpiscono quello che dovrebbe essere il suo elettorato e abbia fatto invece della transizione a ogni costo un totem ideologico che ha sostituito le vecchie ideologie del passato. E infatti i ceti popolari si spostano a destra.

 

Ancora: l’impatto dell’Ets sui prezzi dell’elettricità prodotta con il gas è pari a circa il 25/30  per cento del prezzo finale. Lo scopo delle tasse ambientali dovrebbe essere quello di produrre un aumento artificiale dei bassi costi per alcune attività che andrebbero scoraggiate, Ma quando il prezzo del gas schizza alle stelle, il buon senso suggerirebbe di abolire o ridurre la tassazione, visto che i prezzi sono già di per sé molto alti. Ma ormai il mercato degli Ets coinvolge interessi finanziari molto estesi, comprese attività legittime, ma puramente speculative. Inoltre rappresentano una entrata  consistente per il bilancio della Ue a cui appare molto difficile rinunciare. Che, anzi, si vogliono incrementare.  Insomma hanno perso il loro significato e servono a fare cassa. Quando Draghi parla delle barriere interne e dei dazi che ci siamo autoimposti dovrebbe gettare un occhio da queste parti. 

 

In sostanza e per parlare con la chiarezza che i tempi impongono il Green Deal è fino ad oggi, per chiamare le cose con il loro nome, un fallimento

 

La riduzione delle emissioni che ha determinato è stata insignificante rispetto alle dimensioni globali del problema. Ed è dovuto in buona parte al crollo delle produzioni energy intensive, fondamentali per una società industrializzata.

 

L’industria europea non ne ha tratto alcun vantaggio, ma anzi è stata fortemente penalizzata.

 

I carichi burocratici e le complicazioni hanno aggravato il peso sopportato da cittadini e imprese.

 

I costi sia in termini di risorse pubbliche gettate nel forno della transizione sia come aggravio per imprese e famiglie, soprattutto i ceti meno abbienti, sono stati assai consistenti, sottraendo risorse alla spesa sociale e agli investimenti in altri settori. 

 

Sono state imposte tecnologie specifiche con un atteggiamento centralista e pianificatorio che cozza contro la neutralità tecnologica e l’economia di mercato. In nessuna tecnologia l’Europa è risultata vincente. Infine si sono persi completamente di vista obbiettivi economici e contesti geopolitici che meritavano ben altra attenzione.  

 

Naturalmente sollevare queste obiezioni, tutte facilmente verificabili, porta direttamente all’accusa di “negazionismo”. Perché essendo diventata la lotta al riscaldamento globale ormai più una religione e un’ideologia anziché un insieme di scelte efficaci e di strumenti ragionevoli essa non tollera alcuna obiezione nel merito. Dal punto di vista politico tutto ciò ha fornito strumenti formidabili alle destre europee che hanno cavalcato il malcontento di intere categorie, rivolgendolo contro le istituzioni europee, che corrono il rischio di essere travolte se non cambiano nettamente direzione. L’avanzata delle destre antieuropee  in Germania e in Francia  è un campanello d’allarme potentissimo.  Anche perché l’Europa si trova ad affrontare ben altre sfide, a cominciare dalla necessità di recuperare le risorse per il riarmo. Per la maggioranza Ursula tenere insieme il tutto sta diventando un compito quasi impossibile. Socialisti e Verdi minacciano il ritiro dell’appoggio se il GD non rimane al centro dei programmi europei. I Popolari, soprattutto i Popolari tedeschi, preoccupati dalla perdita dei consensi,  hanno iniziato un’inversione di marcia, che li ha portati  a votare talvolta  in maniera difforme. Hanno per esempio bloccato la disciplina sugli ulteriori obblighi di rendicontazione finanziaria e ambientale che le imprese  avrebbero dovuto redigere. Hanno fra l’altro preannunciato una richiesta di eliminazione del divieto di vendita dei motori termici al 2035. Concetto esposto anche da Mario Draghi nella sua ultima relazione al Parlamento europeo. Ma l’impianto della legislazione precedente continua a manifestare i suoi effetti. Pochi hanno il coraggio di dire apertamente   che gli obbiettivi fissati sono irraggiungibili e quindi alcune  delle misure previste, come per esempio l’estensione dell’ETS e la fine della dotazioni gratuite, continuano a correre. Un’inversione di marcia esigerebbe una volontà molto più forte. 

 

Che fare quindi? Intanto smetterla di fissare paletti assurdi e scadenze fissate per ragioni politiche. Liberare le industrie europee da oneri e impedimenti. L’estensione dell’Ets corre il rischio di essere il chiodo definitivo  sulla bara dell’industria europea. Poi mettersi bene in testa che la transizione non sarà decisa dai tempi delle burocrazie europee. Sarà un processo lungo, almeno tutto questo secolo, che deve coinvolgere buona parte del mondo e che sarà affidata soprattutto ai salti tecnologici che saremo in grado di mettere in campo. Batterie ad alta densità, idrogeno a un decimo del prezzo odierno, nucleare, quello esistente e quello nuovo, carbon sequestration a prezzi convenienti, agricoltura di precisione, forse un domani la fusione e tutto quello che l’intelligenza  artificiale ci potrà regalare soprattutto in termini di efficienza dei processi. Un navigatore su un’automobile fa risparmiare molta  più benzina di quanto facciano le assurde norme europee. Qualcuno ha mai citato il navigatore come una tecnologia verde?  Ma se continuiamo a fare gli inutili primi della classe e non facciamo un bilancio serio degli enormi costi e dei pochi risultati fin qui ottenuti i discorsi sulla competitività europea sono pura retorica. E infatti a Bruxelles fanno finta di niente. Ursula von der Leyen ha bisogno di tenere il GD dentro il suo orizzonte per il ricatto di socialisti e verdi e Draghi predica nel deserto. Intanto i barbari sono alla porte, ma finalmente le nostre cannucce sono biodegradabili.

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