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Il Foglio Weekend
Tilman Fertitta, l'ambasciatore americano che batte bandiera texana
Il roccioso 68enne magnate dei ristoranti, dell'immobiliare e di molte altre cose è il primo che ha scelto di vivere non dalle parti di via Veneto, ma in barca. Ogni sera si ritira tra i 76,5 metri del “Boardwalk”, dotato di un elicottero con cui di mattina si reca a Roma
Ah l’ambasciatore, figura letteraria che non conosce crisi. Dal Monsieur de Norpois proustiano – un signore che sa stare a tavola in varie lingue senza dire mai niente di intelligente – a più recenti manifestazioni televisive: “The diplomat”, una giovane rocciosa ambasciatrice americana a Londra; e “Succession”, con uno dei figli svalvolati del cattivo magnate che viene dissuaso dal correre per la Casa Bianca in cambio di un’ambasciata in un piccolo paese europeo. E qui ci avviciniamo ancor più al tema di cui trattasi. Perché l’ambasciatore americano in paesi di piccolo calibro, ma con evidenti attrattive turistiche, è un “topos” a sua volta, è una nicchia, è una miniera di significati e aneddoti. A differenza delle diplomazie europee, quella americana colloca spesso in paesini turistici non funzionari di carriera bensì grandi finanziatori del presidente in carica, che vengono catapultati dal loro Texas o Iowa in vetuste sedi che magari hanno visto passare Metternich, e lì vengono ricoperti di onorificenze, protocolli, onori, come un resort a molte stelle (e strisce). Essere ambasciatori americani in Europa è come un “White Lotus” di fascia alta; così per esempio Trump ha spedito il consuocero a capo della sede di Parigi, rappresentante in quella Francia che è paese diciamo ormai messo peggio dell’Italia, ma ancora con l’arma nucleare e seggio permanente alle Nazioni Unite.
Tra le ambasciate a più spiccata vocazione turistico-alimentare c’è poi naturalmente l’Italia. Essere ambasciatore americano a Roma è come essere l’ottavo re della città, lo sanno bene i cittadini quando vedono sfrecciare dalle parti di via Veneto convogli composti dai neri gipponi targati CD (e magari è l’ambasciatore che va a mangiare il pesce da Pierluigi o da Tullio). L’ambasciatore americano arriva solo dopo il Papa e dopo il presidente della Repubblica. Esserlo è un sogno, tra la sede di lavoro di via Veneto e la residenza di viale Rossini, quella Villa Taverna che ha le aiuole più curate di Roma (e gli alti muraglioni che la separano da via Aldrovandi, nel cuore dei Parioli). Di fronte, trovò la morte il 3 febbraio 1960 un altro leggendario italoamericano (più italo che americano), Fred Buscaglione, scontrandosi con un camion la sua Ford Thunderbird rosa.
Ma questa è solo l’ultima delle sedi, venduta nel ‘48 dalla principessa Ida Borromeo Arese Taverna (dunque molto “Jaki”) al governo di Washington. Prima, i diplomatici americani hanno seguito negli anni gli spostamenti delle capitali, Torino poi Firenze infine Roma unitaria (ma dopo, a Torino c’era anche una stupenda storia di un povero console americano che negli anni Sessanta non aveva altro incarico che spiare Agnelli, o almeno frequentarlo, e quello, perfido, non lo invitò mai, per cui per ripicca arrivavano al Dipartimento di Stato allarmanti profili del capo della Fiat). Ma a Roma, ecco appunto le due sedi, quella di lavoro che nasceva tra le speculazioni edilizie dei Ludovisi, nella distruzione dell’omonimo parco e quartiere a fine Ottocento. All’epoca vigeva il “modello Roma”, altro che Milano: il principe vende la tenuta alla famigerata Società Immobiliare per sei milioni, poi ci ripensa e la ricompra sperando di guadagnarci ancora di più. Intanto però il boom edilizio è terminato e lui si mangia il patrimonio suo e del figlio. Trova un acquirente nella famiglia Savoia che gli compra il palazzo Boncompagni-Ludovisi, fatto fare all’archistar dell’epoca Gaetano Koch, dove installano prima la Bela Rosin (amante e poi moglie morganatica di Vittorio Emanuele II), poi la regina madre Margherita, da cui il nome, che sarà fino ad oggi palazzo Margherita. Infine il palazzo passa agli americani che dal 1931 ne fanno l’ambasciata (sotto la grande scritta Martini che campeggia nelle feste celebri della Grande Bellezza).
Nel bianco compound su via Veneto hanno lavorato personaggioni come la celebre ambasciatrice molto conservatrice Clare Boothe Luce, moglie del magnate Henry Luce editore di Time, Fortune e Life, che negli anni Cinquanta tormentava talmente Papa Pio XII - non proprio uno sfrenato antifa – sulla necessità di una chiesa tutta d’un pezzo contro il comunismo, fino a farlo sbottare: “Signora, non deve convertirmi. Sono cattolico anch’io, sa?”. Poi una sfilza di solo maschi quasi sempre ricconi (ma sotto di loro hanno funzionari di carriera che conoscono il mestiere) che a Roma sono trattati come ultimi imperatori. Adesso finalmente è arrivato il nuovo: finalmente perché durante l’amministrazione Biden la sede di Roma rimase sguarnita a lungo, due anni, fino a causare un mezzo scandalo (si disse che era stata promessa a Nancy Pelosi, la ex speaker della Camera, italoamericana, ma che traccheggiò e poi rinunciò, complice anche l’agguato a martellate quasi mortali di un simpatico trumpiano al marito).
Spesso la sede molto ambita finisce proprio a italoamericani, che così tornano nella loro patria col massimo grado e con la massima nostalgia di quel paese tanto esotico. Per un po’ si pensò che l’inviato di Trump fosse il fantasmagorico Paolo Zampolli, figlio dell’inventore del Dolce Forno, e colui che presentò a Trump Melania, e che intervistammo qui sul Foglio, ma lui ha avuto un’altra importante nomina, “inviato speciale per le global partnership”, che non si sa cosa voglia dire ma suona benissimo. Finalmente insomma arriva il vero ambasciatore. E che ambasciatore. Il 12 giugno ha toccato il suolo romano col suo jet privato, la moglie, la figlia e un cagnetto Tillman Fertitta, roccioso 68enne texano magnate dei ristoranti, dell’immobiliare e di molte altre cose. Non è una novità che sia un ricco, lo sono quasi sempre (Ron Spogli era finanziere, così come Lewis Michael Eisenberg; Mel Sembler era il re dei centri commerciali).
Ma c’è un primato assoluto: è il primo che ha scelto di vivere non nella residenza bensì in barca. E che barca. Fertitta ogni sera si ritira tra i 76,5 metri del “Boardwalk”, grande panfilo a motore costruito nel 2021. Interni non minimalisti, marmi chiari e corrimano di acciaio inox svolazzanti, pare ispirato al Post Oak Hotel di Houston, il gioiello della corona immobiliare di Fertitta. E ancora sei bar, ascensore, sette cabine per 14 ospiti, 22 persone di equipaggio, piscina, una sala massaggi, una cantina refrigerata. E soprattutto un elicottero, con cui ogni mattina si reca a Roma. La notizia l’avevamo sommessamente data noi ancora mesi fa, di questo strano diplomatico in arrivo che aveva visionato la sede e soprattutto la residenza e non era rimasto molto colpito. Preferendo dormire sul suo cargo battente bandiera texana. Però forse spinto da motivazioni segrete, o non avendo molta esperienza, dell’Italia, soprattutto navale, se non nei ricordi degli antenati, non aveva puntato su tappe diciamo ortodosse o ovvie. Non l’Argentario, non, chissà, il Circeo. No, inizialmente il suo Boardwalk l’aveva ancorato a Ostia, nello stupore di bagnanti e fagottari. Poi c’è stato il cambiamento: a Civitavecchia. Anche lì, bizzarra destinazione, seppur con un suo prestigio diplomatico (vi era, come è noto, console di Francia lo scrittore Stendhal).
Ma se la richiesta di risiedere sulla sua barca è legittima ancorché inedita, è ovvio pure che pone dei problemi logistici, essendo la protezione di un ambasciatore (perdipiù americano) molto seria, e richiede continue scorte di terra di mare e di cielo. Quindi al momento il porto di Civitavecchia è stravolto dalle nuove misure di sicurezza, e a Civitavecchia si lamentano. Ignari crocieristi vengono fermati mentre scendono a sgranchirsi le gambe in una passeggiata sul porto, notai e commercianti mettiamo dell’Eur che vanno a curare la barca vengono continuamente identificati. Una seccatura. Altri sono invece orgogliosi e forse perfino troppo, del nuovo armatore estero. La presenza del Boardwalk sarebbe “un’ulteriore prova della centralità crescente di Civitavecchia non solo come scalo crocieristico e commerciale, ma anche come snodo internazionale di rilievo, capace di accogliere e gestire personalità di primo piano sulla scena geopolitica globale”, scrive il sito Etruria News. L’altra questione logistica è che Fertitta aveva messo in conto di spostarsi, per il suo smart working balneare, dal ponte del suo Boardwalk fino all’ambasciata, col suo bianco elicottero, ma la cosa, forse banale nell’avito Texas, a Roma è meno facile. Tra Civitavecchia e il west ci sono pur sempre delle differenze. Ecco che con molto imbarazzo e tatto gli è stato fatto presente che non è possibile sorvolare il centro di Roma, cosa permessa soltanto alle forze dell’ordine e eccezionalmente al Papa. Quindi, molto seccato, a Fertitta gli tocca decollare sì dalla barca a Civitavecchia, ma poi atterrare nel piccolo aeroporto privato dell’Urbe, a Roma Nord, vicino Settebagni (e lì, raccontano di altri sconcerti, l’aeroporto serve infatti soprattutto come scuola di volo, per chi da sempre sogna di condurre i cosiddetti ultraleggeri, e si vede piombare invece le squadre del Secret Service). Ma niente, dall’Urbe poi parte un piccolo convoglio che tra sirene e palette lo porta ai Parioli, certo magari bruciando i semafori, ma annullando comunque in gran parte il vantaggio dell’elitrasporto.
Che poi lui se potesse si muoverebbe solo via mare. Da Civitavecchia non sta mai fermo, appena arrivato ha effettuato una visita ufficiale a Nettuno, al cimitero dei militari americani caduti durante la Seconda Guerra Mondiale, e quest’estate si è scatenato. Ha viaggiato in lungo e in largo, di nuovo anche in località non ovvie. “Girare l’Italia è una continua scoperta di alcuni tra i posti più belli del mondo: Siracusa, Catania, Taormina, Tropea e Capri — e poi Gaeta, Anzio, Nettuno”. E l’immancabile “Civitavecchia”, ha scritto su Instagram. Erano anni che il litorale romano non aveva un testimonial del genere. A fine estate, a conclusione delle sue vacanze intelligenti, si spiaggiava infine a Venezia, famelico di vedere tutto, conoscere tutto, tutto visionare. Soprattutto l’arte: di cui è appassionato. Ha visitato la Peggy Guggenheim Collection, gli archivi di Stato, dove gli hanno sottoposto una copia della Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, infine la Mostra del cinema, dove lo si è visto felice, attovagliato alla cena di gala all’Excelsior col ministro Giuli e il presidente Buttafuoco. Nei giorni scorsi invece era a Milano per la settimana della moda, abbracciato al rapper 50 cent a un evento di Dolce & Gabbana, e poi da Armani, e ancora da Prada. Perché la moda è la grande passione della moglie, la seconda, Lauren Ware Fertitta, ex avvocata già in forze alla catena di ristoranti di pesce “Landry”, con cui lui ha fatto fortuna, partendo dal piccolo ristorantino del padre. A Houston erano tra le coppie più mondane, essendo lui l’uomo più ricco della città, con 11,3 miliardi di dollari, oltre che proprietario della locale squadra di basket, i Rockets. Legati ai Bush, la famiglia reale texana, sono stati anche sponsor dei Clinton. Dunque, equidistanti, oltre che mondani.
Ma l’approccio texano a Roma, perché siamo molto provinciali, lascia un poco interdetti: fioccano infatti inviti per alcuni fortunati a bordo del Boardwalk - per cena, ma orari poco romani, 18:45, tipo, e col logo della barca, stampigliato sopra l’invito, che sembra un po’ una roba aziendale o un ristorante. E poi, a Civitavecchia, stupidamente, non tutti hanno voglia di andare. Stupidamente, perché lui è un grande personaggio. Come il suo dante causa, è anche protagonista di reality: è infatti il mattatore di “Billion Dollar Buyer”, una specie di “piccole imprese da incubo” in cui lui va in giro per gli Stati Uniti a bordo del suo jet privato a scoprire nuove aziendine, e cazzia e consiglia i proprietari che sbagliano i primi passi del business (ho visto una puntata, in cui va a trovare una famiglia immigrata che produce macarons, e fa tutta una disquisizione su quanto ricarico dovrebbero avere i macarons per essere veramente “successful”, e mi sono appassionato, purtroppo non si può vedere da nessuna parte in Italia. Che poi le imprese italiane ne avrebbero proprio bisogno, di un Fertitta, basta coi 4 ristoranti. E chissà a Civitavecchia, magari potrebbe cominciare a istruire i balneari, spingendosi verso Santa Marinella, Fregene… spiegandogli che forse è ora di cambiare business model…).
Sorridente, grintoso, casual, è il più social degli ambasciatori che ci siano stati finora a Roma. Ecco che appena arrivato ha messo un bel post col “prima” e “dopo”, lui da semplice visitatore nel 2011 e poi da padrone di casa a Villa Taverna, che nonostante non vi risieda, ha provveduto a innovare come si deve, soprattutto anche come fondale per la collezione d’arte che ha subito installato. Capolavori di Lichtenstein, Sargent e altri col programma “Arte in ambasciata” del Dipartimento di Stato americano, e che ha collocato insieme al Direttore del Museum of Fine Arts di Houston, di cui lui era consigliere. Alla residenza si è tenuto il consueto barbecue del 4 luglio, giorno dell’Indipendenza americana, alla presenza delle più alte cariche italiane, tra Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, dove tra gli hamburger con la bandierina americana Fertitta ha dichiarato: “c’è un solo posto dove avrei accettato un incarico: l’Italia”. Qualcuno ha preso il restauro della residenza come un segnale che forse avrebbe abbandonato il mare, decidendosi finalmente a stabilirsi sulla terraferma. Anche perché risulta al Foglio che il favoloso Boardwalk sia in vendita. Avvistato al Monaco Yacht Show, e pubblicizzato su diversi siti del settore, la cifra richiesta è di 165 milioni di euro, per chi fosse interessato.
Ma niente affatto; Fertitta non lascia, anzi raddoppia: pare che ne abbia già ordinato un altro, ancora più grosso (del resto l’attuale Boardwalk sostituiva un altro piccolo Boardwalk di soli 50 metri, da poco venduto). A questo punto chissà se rimarrà attraccato a Civitavecchia o esplorerà altri porti (a Torvajanica ci stanno già facendo un pensiero, a Capocotta sognano). Anche l’elicottero, un Eurocopter EC130, è in vendita, ma con trattativa separata (tipo i garage, negli annunci immobiliari). Forse su quello si è arreso. Barca sì, ma poi si va in ufficio in macchina. I Parioli non sono mica il Texas.



L'editoriale dell'elefantino