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Tra stati uniti e regno unito
La visita di Trump a Londra, tra accordi, fanfare e ostilità
Il presidente americano arriva nella capitale inglese, la città della sinistra al governo che i trumpiani vorrebbero rovesciare. Musk incita la folla e Farage sogna Downing Street
Donald Trump arriva a Londra gongolante – due visite di stato nel Regno Unito è un privilegio concesso soltanto a lui – carico di accordi da firmare, con una delegazione di manager pronti a fare enormi investimenti, dai reattori nucleari all’intelligenza artificiale, passando per i dazi (o almeno così spera il governo britannico di Keir Starmer). Tutto molto promettente, se non fosse che nella “relazione speciale” tra americani e inglesi s’è incuneata un’ostilità profonda, dovuta al fatto che buona parte dell’Amministrazione Trump è convinta che il Regno Unito sia diventato il paese dell’intolleranza, della censura, della sinistra illiberale. A Londra sabato c’è stata una manifestazione spaventosamente partecipata (da 110 a 150 mila persone e degenerata: 26 poliziotti feriti, 4 gravemente, 24 arresti) organizzata da Tommy Robinson, attivista di estrema destra – oltre il nazionalismo di Nigel Farage, che ha sempre preso le distanze da Robinson – che al grido di “United the Kingdom” ha chiesto la cacciata di Starmer, la ricostituzione di un Regno abitato soltanto dagli inglesi e la “rivoluzione dei patrioti”. Il tutto in nome della libertà d’espressione che, proprio come sostengono i trumpiani, è stata soffocata dalla sinistra e dall’establishment: “Abbiamo attraversato la tempesta e ora siamo noi la tempesta”, ha detto Robinson, davanti a una folla prevalentemente di uomini che sventolava bandiere e urlava insulti al premier (e ai suoi ministri, in particolare le donne).
Sullo schermo, alla manifestazione, è arrivato anche Elon Musk, che ora non fa più parte dell’Amministrazione Trump ma che ha sempre avuto la fissazione del Regno Unito come paese da liberare dalla sinistra. Ai manifestanti ha detto che la sinistra è il partito degli assassini – ripetendo un’espressione che, dopo l’uccisione di Charlie Kirk, fondatore di Turning Point Usa e propagandista trumpiano presso i più giovani, è riecheggiata forte – e che bisogna reagire, “combattere o morire”. Musk ha chiesto lo scioglimento del Parlamento e la rimozione di Starmer, incitando una folla che ha una certa consuetudine con l’eversione. Ieri Downing Street ha definito “pericolose” le parole di Musk e ha detto che i britannici non hanno bisogno di questo linguaggio “incendiario”, ma se il tycoon è famoso per i suoi eccessi, è anche vero che questa sua ingerenza nella politica inglese non è una sua ossessione personale. J. D. Vance, vicepresidente americano, ha detto, dal discorso di Monaco in poi, che il Regno Unito è la terra della censura e dell’illiberalismo e il dipartimento di stato la settimana scorsa ha fatto un comunicato molto preoccupato sulla situazione del rispetto della libertà d’espressione nel paese. Questa campagna americana si è innestata su quella locale: Nigel Farage – che è amico di Trump e che ha invece un rapporto burrascoso con Musk, pure se a lungo ha cercato, e forse in parte ottenuto, i suoi finanziamenti – non fa che parlare di libertà d’espressione, è stato chiamato dai conservatori a testimoniare sulla deriva liberticida inglese al Congresso a Washington e, tra la crisi dei migranti mal gestita e gli inciampi vari del governo Starmer, sta macinando consensi mai visti nei sondaggi.
Per Farage si tratta naturalmente dell’occasione della vita, oggi pensa davvero di poter coronare il sogno di diventare primo ministro; per i trumpiani invece si tratta della battaglia contro la sinistra, definita radicale e “folle” anche quando non lo è (tutto si può dire di Starmer, che è grigio, che è cauto, che è goffo, ma non che è radicale). Noi e loro è diventato il filo conduttore della politica trumpiana, e quel “loro” oggi è detto con ancora più rabbia e più disprezzo dopo l’uccisione di Kirk, ma Starmer e il governo britannico sono da sempre “loro”, ed è questa, al fondo, la ragione dell’ostilità. Durante la campagna elettorale di Trump lo scorso anno, i laburisti erano stati accusati di aver “interferito” nel processo con i loro consigli alla candidata dei democratici Kamala Harris: tra tutte le ingerenze possibili, questa è stata quella per cui i trumpiani si sono infuriati di più. E non perdoneranno a Starmer e al Labour inglese il loro lavoro certosino per mettere insieme le sinistre moderate dell’occidente, che si riuniranno proprio a Londra a fine mese per il Global Progress Action Summit. L’effetto di questa relazione deformata dall’ostilità per “loro” è costoso non soltanto per il Regno Unito, che forse può salvare la produzione del suo whisky, ma non riesce a convincere Trump su questioni ben più importanti, come la difesa collettiva dell’Ucraina.
