caos & status quo

Almasri avrebbe arruolato ex membri dell'Isis. Le nuove accuse dalla Libia

Luca Gambardella

Una sparatoria a Tripoli e la confessione di un ex detenuto: il generale libico rilasciato dall'Italia avrebbe tentato di creare un commando per sabotare il governo

L’accerchiamento a Osama Njeem “Almasri” continua e da Tripoli arrivano nuove accuse contro il generale della Polizia giudiziaria libica, arrestato e rilasciato all’inizio dell’anno dall’Italia. Mercoledì un commando di uomini agli ordini del ministero dell’Interno ha fatto irruzione in un appartamento del quartiere di Hay al Andalus, la zona esclusiva della corniche di Tripoli. Secondo un resoconto della procura militare, ne sarebbe scaturito uno scontro a fuoco con i membri di una cellula terroristica. Nell’operazione sono stati uccisi tre membri del gruppo, un altro è rimasto ferito mentre due sono stati arrestati dal commando del ministero, che a sua volta ha perso due uomini. A rendere degna di nota l’operazione è la confessione di uno degli arrestati. L’uomo ha dichiarato che la cellula era composta da ex detenuti che, sotto la guida di un individuo di cui sono state diffuse solo le iniziali, A. K., era attiva a Derna, nella Libia orientale. La banda sarebbe stata poi reclutata da Almasri affinché compiesse “attentati contro le forze governative” a Tripoli. L’affidabilità delle confessioni estorte a ex detenuti libici va presa con le dovute cautele, ma le dichiarazioni della procura hanno già innescato un grande flusso di notizie difficili da verificare. La tesi diffusa è che i membri di questa cellula siano stati liberati dalla prigione di Mitiga gestita dalla Polizia giudiziaria di Almasri. Una fonte libica sentita dal Foglio ha confermato che le accuse  contro il generale sono surrogate da prove concrete e si aggiungono ai procedimenti già avviati dalla procura generale nei confronti del generale, accusato anche di tortura, stupro e omicidio – per non parlare del mandato di arresto della Corte penale internazionale a cui l’Italia non ha dato seguito.

 

 

A rendere plausibile il fatto che Almasri abbia legami con terroristi islamici c’è il suo legame con Abdel Raouf Kara, capo della Forza di deterrenza (Rada) di Mitiga. I componenti di questa milizia seguono la confessione salafita Madkhali, una corrente sunnita ultraconservatrice diffusa in tutto il paese. Tra i principali propositi della Rada non c’è solo quello di gestire la prigione di Mitiga, dove sono rinchiusi ex membri dell’Isis, ma anche di “rieducarli” impartendo gli insegnamenti teologici considerati più consoni all’islam. 

 

Una delle accuse  formulate contro Almasri ipotizza che il generale prometta la libertà e offra denaro ai detenuti per arruolarli nella Polizia giudiziaria al fine di ingrandirne i ranghi. Il mese scorso aveva fatto scalpore in Libia, ma soprattutto in Italia, il video che ritraeva il generale mentre picchiava con violenza un uomo per strada. Si scoprì poi che il filmato era vero, ma risaliva ad anni addietro, tirato fuori solo allora per mostrare al mondo la spietatezza di Almasri. Dopo quel video, altro materiale è stato diffuso con grande insistenza sui social, tra cui degli audio in cui, con tono spaventato, il comandante chiedeva ai suoi uomini di pagare i detenuti affinché si unissero alle sue milizie contro le forze del premier Abdulhamid Dabaiba, con cui è in rotta. Gran parte di questi documenti, secondo quanto risulta al Foglio, sarebbe falso, messo in circolazione dal governo per delegittimare Almasri in quanto braccio destro di Kara, il nemico giurato di Dabaiba.

 

In un paese frantumato in mille pezzi, la storia di Almasri non ne è che un frammento che però racconta bene come i giochi di potere in Libia siano sempre più alla mercé di bande armate fuori controllo. Mentre Dabaiba si aggrappa come può a qualsiasi cosa possa garantirgli di conservare il suo posto alla guida del governo, l’ombra di una operazione militare contro la Rada di Kara – e contro Almasri – preoccupa tutti, non solo in Libia. Persino gli americani, finora poco più che spettatori, sono scesi in campo per tentare di scongiurare il peggio. Al vertice di Roma della scorsa settimana tra Ibrahim Dabaiba e Saddam Haftar, i due nuovi rampolli dell’est e dell’ovest, il consigliere di Donald Trump, Massad Boulos, che ha patrocinato l’incontro ha chiesto ai due leader di evitare a ogni costo una nuova guerra civile. In particolare, avrebbe intimato a Haftar di astenersi dalla tentazione di offrire aiuto a Kara pur di fare fuori il governo di Tripoli. Corteggiati sia dall’est sia dall’ovest per tornare a investire nel paese, gli Stati Uniti hanno dimostrato un certo interesse. Lo scorso mese, la compagnia americana specializzata in infrastrutture, Hill International, ha siglato un memorandum da 8 miliardi di dollari con la Mellitah Oil and Gas, partecipata da Eni, e Dabaiba ha chiesto investimenti per altri 70 miliardi di dollari. Per trasformare in realtà queste promesse, tutti, americani inclusi, sono interessati a  preservare lo status quo. Per Dabaiba non sarà semplice, perché  il suo futuro passa per l’eliminazione dei cavalli di Troia che Haftar sa di potere usare a Tripoli. Kara e Almasri sono due di questi. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.