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il reportage da Kathmandu
Nepal in fiamme, i ragazzi dicono: "Non protestiamo perché ci hanno tolto TikTok. Questa è una rivoluzione"
Il ministero delle Comunicazioni bandisce 26 piattaforme social: da Facebook a YouTube, da Whatsapp a X. I funzionari parlano di "regolamentazione e tasse" ma tutti leggono: censura e controllo. Esplodono le proteste e la violenza
Kathmandu. Tutto comincia il 4 settembre. Una data apparentemente banale. Il ministero delle Comunicazioni di Kathmandu annuncia un bando su 26 piattaforme social: da Facebook a YouTube, da WhatsApp a X. “Regolamentazione e tasse”, dicono i funzionari. Ma in fondo al decreto tutti leggono un’altra parola: censura e controllo. E’ bastata quella scintilla. I ragazzi, quelli Gen Z, nati tra il 1997 e il 2021, cresciuti nell’èra del wi-fi, si riversano in strada. Non portano bandiere, non hanno leader. Portano solo la loro voce, la loro dignità. L’8 settembre la città è un fiume di corpi giovani. Davanti al Parlamento, un mare di studenti in uniforme. Poi gli spari. 19 morti, oltre 300 feriti. Proiettili alla testa. Corpi caricati in fretta su motorini diretti a ospedali senza sangue per le trasfusioni né medicine. Mancano i posti letto. Il governo cade nel panico. Il ministro dell’Interno lascia l’incarico. Il premier K. P. Sharma Oli accusa “gruppi di interesse”. Ma le immagini delle uccisioni girano sui telefoni. Non c’è più modo di bloccarle.
La notte dell’8 settembre scatta il coprifuoco. Ma il giorno dopo, Kathmandu esplode. Ring Road, la circonvallazione della capitale, è in fiamme. Dai tetti, il cielo è grigio di fumo. La rabbia ha superato la paura, “enough is enough”. Filmati di elicotteri che scortano i ministri in luoghi non conosciuti, i giovani che chiedano che nessuno esca dal paese, che non è più tempo per l’impunità. Irrompono nelle casa di quelli che considerano i più corrotti del paese: il ministro delle Finanze del Nepal, Bishnu Prasad Paudel, viene picchiato e gettato in un fiume durante le proteste, la ministra degli Affari esteri Arzu Rana Deuba, viene colpita in faccia. Non sono più solo i ragazzi. In strada ci sono tutti. Le richieste sono chiare: dimissioni del governo, elezioni anticipate, basta nepotismo, basta corruzione. Girano i filmati degli spari e delle uccisioni dei manifestanti. Gli uffici e le residenze del primo ministro vengono devastati e dati alle fiamme, redazioni come Ekantipur assaltate. Bruciano anche fascicoli giudiziari, prove processuali. Human Rights Watch e l’Onu ricordano al governo i princìpi internazionali: le armi da fuoco non si usano per disperdere manifestazioni pacifiche.
Io vivo a Patan Durbar Square, tra palazzi newari e vicoli stretti. I bar si sono trasformati in rifugi. Qui i ragazzi si ritrovano, parlano, ridono, si preoccupano e sperano. Sedendoci sui tetti da dove guardiamo la città in fiamme, mi pregano: “Non raccontarla come una battaglia per i social. Noi non lottiamo per TikTok o WhatsApp. Lottiamo per un paese senza corruzione, senza promesse infrante, è una rivoluzione”. S. punta il cielo in lontananza rosso, il Singha Durbar, dimora storica per i primi ministri e oggi cuore della politica, con sedi ministeriali e quartieri generali di Radio e Television Nepal, brucia ed esplode con boati sonori: “Non va bene, tutta questa violenza è inaccettabile, ma ieri quel bambino poteva essere il nostro futuro presidente. Non si spara sui bambini”. P., che lavora nel turismo, ha perso i genitori uccisi dai maoisti. Mi ricorda R., un caro amico che nella guerra civile perse invece il padre per mano delle forze governative. Due destini opposti, un’unica parola che ritorna in piazza: giustizia. Dopo quasi vent’anni, si chiede la verità sugli scomparsi e sulle vittime di crimini di guerra che macchiarono il paese tra il 1996-2006.
Oggi, nelle pieghe di questo vuoto spuntano vecchie e nuove figure. Rabi Lamichhane, leader del Rastriya Swatantra Party, rilasciato dal carcere in cui era confinato per accuse di frode. Torna subito a reclamare un ruolo. Al suo fianco, Durga Prasai, imprenditore populista, invoca il ritorno della monarchia costituzionale. M., giovane attivista di una ong locale che si occupa di libertà di espressione e digitale, mi dice che al tavolo politico di discussione o meglio negoziazione, hanno invitato anche i rappresentanti della Gen Z. Il movimento però vacilla e non si ha un nome a oggi, perché all’interno del movimento esistono comunque delle crepe. Si parla e si spera in elezioni anticipate. “La cosa importante”, dice M, “è che le vecchie facce del potere spariscano”. Intanto il capo delle Forze armate impone un coprifuoco a oltranza. Gli aeroporti restano chiusi, i militari presidiano le strade. Chiedo chi abbia il controllo, e la mia osservazione sull’assenza di dichiarazione di uno stato di emergenza mi confonde. “Coup”, colpo di stato, è la parola che circola di bocca in bocca al tavolo.
Le immagini di Kathmandu ricordano quelle di Dacca, estate 2024. In entrambi i paesi, un provvedimento specifico ha liberato una rabbia accumulata da anni: corruzione, disuguaglianze, autoritarismo. Entrambe le proteste sono generazionali. A Dacca gli studenti usarono Facebook e WhatsApp; a Kathmandu i giovani hanno scelto TikTok, Viber e Vpn. Hanno trasformato perfino un meme – “Nepo Babies” – in parola d’ordine politica. Ma c’è un rischio. In Bangladesh, i fondamentalisti islamici deviarono presto la protesta. In Nepal, sono i nostalgici della monarchia e i giochi dei militari a tentare di cavalcare la rabbia. Tra il fumo delle barricate e le strade vuote pattugliate dai soldati, resta limpida la voce dei ragazzi: non vogliono più vivere con il peso delle promesse tradite. In questo settembre nepalese, la storia ci dice che la vera linea di frattura non è tra governo e opposizione, ma tra vecchio e nuovo. Una generazione ha deciso che non aspetterà più.