
LaPresse
L'editoriale del direttore
Il modello italiano spiegato all'Europa
I primi ministri francesi che cadono come birilli. L’esecutivo inglese che perde pezzi. Il governo spagnolo che balla. L’oasi italiana passa da due vizi diventati virtù: compromessi e trasformismo. Una controstoria
Lo schema è semplice. Si scrive Europa, si legge Italia. Si scrive Italia, si legge realtà. La stampa di mezza Europa, da qualche mese a questa parte, si chiede come sia possibile che in un’Europa che a poco a poco si sta incredibilmente italianizzando, a colpi di governi balneari, a colpi di primi ministri che cadono come birilli, a colpi di esecutivi che si reggono sul voto dei Turigliatto di turno, l’unico paese europeo che sembra essere immune dall’italianizzazione dell’Europa sia proprio l’Italia. Un paese, neanche a dirlo, diventato per molti governi italianizzati una sorta di benchmark, scusate la parola, di scarsa italianità. Tesi: guardate come sta bene l’Italia, con la sua sfacciata stabilità, e guardate invece quanti guai hanno i paesi che hanno sempre osservato con snobismo la politica italiana, come quello francese, come quello spagnolo, come quello inglese, che oggi si ritrovano a fare i conti con un’instabilità politica tipica dei vecchi governi italiani.
In alcuni casi, come il caso francese, l’instabilità politica va di pari passo con un altro fenomeno che l’Italia ha sperimentato nel passato, ovvero gli alti interessi sui titoli di stato, e la notizia di ieri è che in Francia i titoli a dieci anni hanno avuto un rendimento più alto rispetto a quelli italiani, cosa che non capitava dal lontano 1989. In Inghilterra, lo sapete, lo scenario italiano è all’ordine del giorno, con ministri ballerini e vicepremier che cadono. In Spagna, da ormai diversi anni, il governo Sánchez gestisce a fatica le minoranze in Parlamento. In Germania, poche settimane fa, il nuovo cancelliere, Friedrich Merz, prima di ricevere la fiducia, è stato impallinato dai franchi tiratori. Quello che però sfugge quando si ragiona intorno al piccolo miracolo italiano, un’oasi di stabilità in un oceano di instabilità, è che l’Italia è diventata stabile, pacificata, sicura, non per aver rimosso la sua storia ma per aver tratto giovamento da due caratteri che più italiani non possono essere e che nel corso del tempo hanno iniziato ad assumere un carattere positivo dopo essere stati per anni uno stigma negativo: la cultura del compromesso e la dottrina del trasformismo. La cultura del compromesso ha permesso all’Italia di dotarsi di riforme formidabili, con maggioranze larghe, grazie alle quali oggi l’Italia non ha i problemi che ha per esempio la Francia sulle pensioni: citofonare a Elsa Fornero e a Mario Monti e alla loro salvifica riforma delle pensioni del 2011, lacrime allora, sorrisi oggi. E la cultura del compromesso, citofonare a Giuseppe Conte prima e a Mario Draghi poi, ha permesso di mettere a terra un piano di finanziamenti dell’Europa, via Pnrr, che sta permettendo al nostro paese di rimanere a galla, almeno dal punto di vista della crescita, e non è difficile immaginare cosa sarebbe successo al pil italiano senza gli aiuti europei: zeru tituli, direbbe José Mourinho.
Dall’altra parte, invece, la dottrina del trasformismo, la capacità cioè dei politici di cambiare casacca al momento giusto, in nome non solo della cadrega ma della stabilità, e la capacità dei politici di cambiare idea senza cambiare cadrega, in nome del realismo politico, è lì a testimoniare una peculiarità e un’eccellenza di cui l’Italia è maestra assoluta: avere politici con idee forti su molti temi, ma avere allo stesso tempo politici in grado di adattare le proprie idee alla cultura di governo, in nome della propria sopravvivenza personale e in nome anche della sopravvivenza dell’Italia. L’Europa che dunque si interroga sul caso italiano dovrebbe avere il coraggio di fare un passo successivo e riconoscere che l’Italia è diventata un modello di stabilità non per il suo essere un po’ meno italiana rispetto a molti anni fa ma per aver trasformato i suoi vizi in elementi virtuosi (e in fondo anche la presenza di un debito pubblico alto, grande vizio italiano, ha costretto i politici di conio diverso a fare i conti con la realtà). La forza dell’Italia dunque non è quella di essere meno italiana rispetto al passato: è quella di aver trasformato la cultura del compromesso e la dottrina del trasformismo in due elementi identitari della sua stabilità. I parlamentari trasformisti hanno permesso all’Italia di avere riforme solide che consentono oggi al nostro paese di essere meno vulnerabile. I politici trasformisti hanno adattato il proprio credo politico alle esigenze della contemporaneità. La logica del compromesso ha costretto partiti molto distanti a dialogare tra loro e ad allontanare l’estremismo dalla quotidianità del governo. Si scrive Europa, si legge Italia. Si scrive Italia, si legge realtà.