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lo scenario
Il futuro ha bisogno di un nuovo Occidente
Gli ultimi vertici hanno mostrato la crisi terminale di un soggetto storico che era stato forte e stabile. Ora, unito nella ricerca di dignità e libertà umane declinate in modo nuovo, non potrà più essere solo bianco e atlantico, bensì globale
Le immagini di Trump e Putin in Alaska; quella dei leader europei accorsi a sostenere l’Ucraina a Washington, quasi spaesati dall’assurdità del compito rispetto a quello che fino a poco tempo fa sembrava normale; e quelle di Xi, Modi e Putin che a Pechino si tengono la mano festeggiando autoritarismi di tutto il mondo di fronte a una gigantesca parata militare hanno mostrato – senza ambiguità possibili – la crisi terminale del nostro Occidente, già scosso dalle politiche di Trump. Se è comprensibile esserne addolorati, non c’è motivo di esserne sorpresi. I segni di questa crisi sono infatti nitidamente visibili almeno dalla fine della presidenza di Bush Junior, dalla crisi economico-finanziaria del 2008-2010, dalla vittoria di Obama e dalle difficoltà dell’Unione europea e dei suoi singoli componenti, nonché dal cambiamento delle politiche di Putin, annunciato a Monaco nel 2007 e dal consolidamento del potere di Xi.
Molti non hanno però voluto vedere perché era comodo e rassicurante non farlo, ma anche perché si veniva da anni di “vertigini da successo” seguiti alla vittoria nella Guerra fredda, che avevano alimentato l’idea e l’immagine di un Occidente come soggetto storico forte e stabile. La storia non conosce però la stabilità, una regola che vale per tutti e per tutto, Occidente compreso, un concetto appunto storico che ha avuto varie e diverse incarnazioni e potrebbe quindi, ma non è scontato, averne di nuove. Anch’io me ne accorsi in ritardo e con stupore quando, dopo trent’anni passati a guardare l’Unione sovietica e i sistemi socialisti per farne la storia, ricominciai a vedere anche gli Stati Uniti e l’Europa, dove pure avevo continuato a vivere e lavorare. In Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo ho provato a fare i conti con questa realizzazione, maturata nella convinzione che Occidente sia una categoria intellettuale, e quindi storicamente e geograficamente mobile, e al tempo stesso multipla, che comprende cioè le diverse incarnazioni che essa ha avuto nella storia. Anche se ciascun Occidente realmente esistito può essere ritenuto ipocrita, e alcuni di questi Occidenti sono degenerati in sistemi imperiali anche brutali, resta il fatto che in ciascuno degli Occidenti che si sono succeduti nel tempo, la libertà e la dignità delle persone sono comunque sopravvissute e cresciute più che altrove, e che è per questo che ci sono cari.
Di questi Occidenti, mai consecutivi e quindi creazioni di volta in volta uniche, ancorché intellettualmente collegabili col senno di poi, manca una storia critica, sostituita da una storia levigata che è una produzione intellettuale costruita in base alle riflessioni sulle catastrofi delle due guerre mondiali e la terribile realtà dei “totalitarismi”. Ma la catena che legherebbe la lotta tra Greci e persiani, lo stoicismo dell’Impero romano, l’avvento del cristianesimo, la contrapposizione tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, la comparsa dell’umanesimo e della scienza moderna, l’illuminismo e gli ideali liberaldemocratici e socialisti, ancorché presto pervertiti, è appunto una ricostruzione a tesi di cose diverse, anche se accomunate dallo sviluppo di alcuni valori. Il primo Occidente moderno definitosi tale, quello anglo-francese e poi e anche tedesco, era per esempio molto diverso da quello ricostruito nel 1945. Tra i due vi è inoltre l’abisso scavato dal suicidio dell’Europa avviato dal 1914 e che pochissimi negli anni Trenta di Hitler e Stalin avrebbero scommesso sarebbe stata chiuso da una nuova versione di “Occidente”. Non a caso Oswald Spengler lamentò alla fine della Prima guerra mondiale il tramonto, non l’oscuramento, del suo; e Alfred Zimmern, il primo professore di relazioni internazionali che nel 1915 usava il termine scrivendo che “le idee che sono in voga a Londra e Berlino oggi, saranno al centro delle discussioni di New York e Chicago domani”, 40 anni dopo non avrebbe creduto di vivere nello stesso “Occidente”.
Quello nuovo del 1945 nacque infatti dall’adesione dei principali paesi dell’Europa occidentale al progetto guidato dagli Stati Uniti, un’adesione resa possibile non solo dalla debolezza dei primi, ma anche dalla forza e soprattutto dalle caratteristiche dei secondi. Si trattava infatti di un’America che era ancora, e anzi più di prima, un’Europa fuori d’Europa, in cui le quote poste all’immigrazione nel 1924 per frenare quella dei “bianchi di qualità inferiore” (i cattolici dell’Europa meridionale o gli ebrei di quella centrorientale) avevano paradossalmente favorito – insieme alle guerre mondiali e al New Deal – l’integrazione degli immigrati arrivati prima. Gli Stati Uniti del 1960 erano quindi non solo più americani, ma paradossalmente anche più europei (perché non solo nordeuropei) che in qualunque altro momento della loro storia. L’Europa veniva invece da decenni di processi, spesso crudeli, di omogenizzazione nazionale e da una guerra più devastante della precedente. Il nuovo Occidente era quindi composto da un vittorioso centro americano, che per le sue tradizioni antimperiali voleva essere solo informalmente tale ed era ancora culturalmente ed etnicamente europeo; un mondo anglosassone, pure vittorioso, ad esso associato e indeciso nei riguardi delle sue relazioni con l’Europa continentale; e un progetto europeo con diverse anime, composto essenzialmente da stati etno-nazionali sconfitti, e quindi indeboliti, ma fondati su fortissime tradizioni in parte vivificate dall’opposizione al nazismo.
Specie dopo il crollo degli imperi coloniali europei, questo nuovo Occidente fu quindi un impero al tempo stesso informale e liberale. Esso si dotò molto presto di un’alleanza militare e di forme sofisticate, spesso con ambizioni globali più che internazionali, di collaborazione e integrazione economica. Tra di esse vi era il progetto di cooperazione europea avviato dal piano Marshall. A causa delle tradizioni del centro statunitense e del Regno Unito, della battaglia contro il nazifascismo e poi della Guerra fredda, questo impero informale si dotò di un discorso imperniato sui valori della libertà e ostile al nazionalismo. Un contributo fondamentale alla levigatezza storica della sua ideologia venne da Hans Kohn, il principale storico del fenomeno, deluso dal sionismo e teorico della contrapposizione tra sentimento nazionale buono e nazionalismo cattivo. Il primo, legato a “un concetto razionale e universale di libertà politica e di diritti dell’uomo”, sarebbe stato animato da una versione secolarizzata della tradizione stoico-cristiana e basato sulle classi medie. Il secondo si ispirava invece “ai miti del passato e della solidarietà tribale, sottolineava […] la diversità e l’autosufficienza delle nazioni” e ragionava in termini di masse e aristocrazie. Insieme alle teorie dei critici del totalitarismo, questi concetti fornirono le pietre angolari della nuova e bella, ancorché ingenua e autoconsolatoria, retorica della Western civilization, i cui corsi divennero uno dei cardini dell’insegnamento superiore negli Stati Uniti.
Come scrisse Kohn, questa civilizzazione avrebbe presto permesso l’apertura di “un’epoca di pan-umanesimo, generata dal dinamismo della moderna civiltà occidentale”, un sogno di cui le Nazioni Unite furono il simbolo prima di diventare quello del suo fallimento. Quest’ultimo fu causato dalla mancata comprensione del fatto che ogni unione deve essere fondata su valori simili se non comuni, cosa che una decolonizzazione per forza e comprensibilmente antieuropea rendeva impossibile, al di là della presenza del blocco socialista. Questo nuovo Occidente raggiunse il suo zenith nei trenta anni “gloriosi” seguiti al 1945: alla loro fine, negli anni Settanta, i paesi bianchi di ceppo europeo più il Giappone costituivano quasi un quarto della popolazione mondiale e producevano e detenevano ben più della metà della ricchezza del pianeta. Il suo sgretolamento era però già cominciato ed era il prodotto naturale dell’altrettanto naturale divergenza tra la strada imboccata dagli Stati Uniti e quella presa dai paesi europei, compresi quelli che via via si univano al nucleo originario contribuendo al suo cambiamento. L’Europa si avviava a diventare così sempre meno “occidentale”, in un processo che ha raggiunto il suo culmine dopo il 1991, mentre gli Stati Uniti cessavano di essere un’Europa fuori d’Europa. Demografia e immigrazione sono stati i motori principali di questo cambiamento, cui non è stata a lungo prestata attenzione. Ancora negli anni Settanta gli Stati Uniti erano un paese di Italian-, Jewish-, Irish-, Polish- (ecc.) Americans; e ancora nel 1980 i “non bianchi” e “non neri” rappresentavano solo il 5 per cento della loro popolazione. Ma il benessere e il crollo delle nascite (l’Europa è scesa sotto la soglia della riproduzione già nel 1972) avevano già posto fine all’emigrazione europea, proprio mentre gli Stati Uniti si aprivano alla più grande ondata immigratoria della loro storia. Questa fu permessa da una legge di riforma dell’immigrazione varata nel 1965 proprio a causa della pressione degli hyphenated Americans, che detestavano le quote del 1924 – ritenute giustamente discriminatorie – e ne ottennero l’abolizione. La convinzione era che la nuova legge non avrebbe alterato la composizione della popolazione, e quindi la cultura, statunitense, ma in pochi decenni queste previsioni si rivelarono completamente sbagliate. Già nel 1995 gli immigrati entrati legalmente negli Stati Uniti grazie ad essa erano 18 milioni, il triplo di quelli ammessi tra il 1935 e il 1965, e non provenivano più dall’Europa: tra il 1980 e il 2020 i residenti legali nati in Europa sono diminuiti da più di cinque a 4,8 milioni; quelli nati in Asia sono aumentati da 3,6 a 14,1 e quelli dall’America latina da 6,2 a 21,2 milioni. E già nel 2011 le nascite dei non-bianchi hanno superato per la prima volta, in cifra assoluta, quelle dei bianchi.
Questo cambiamento epocale ha cambiato il carattere e l’orientamento politico delle grandi città americane, New York inclusa (le cui primarie democratiche, un tempo dominate da italiani, irlandesi, ebrei e neri sono state vinte di recente da un musulmano di origini indiane), come il carattere, la cultura e i corsi delle università. Ancora nel 1979, quando ebbi la mia prima nomina, i professori più importanti erano spesso ancora nati in Europa e la cultura europea esercitava ancora una vasta influenza. Oggi i corsi di storia e cultura dei singoli paesi europei si sono grandemente ridotti o hanno radicalmente cambiato la loro natura. Obama e Kamala Harris sono a loro modo simboli di questo cambiamento, come Biden lo è di una presenza direttamente europea nelle fasce più anziane della popolazione, ché i loro nipoti sono ormai americani. E’ cambiata nel frattempo anche l’Europa: la decolonizzazione ha drasticamente ridotto la sua influenza nel mondo e il vecchio mercato comune a sei membri del 1956 è diventato, anche se solo nel nome, un’Unione di 27 stati, la maggior parte dei quali non si trova nella sua parte occidentale. E un continente invecchiato, in cui fino a pochi decenni fa le minoranze di origine non europea più numerose erano ebrei e romaní, è oggi abitato da milioni di neri, asiatici, musulmani ecc.
Questi due cammini divergenti hanno in comune un declino che ha però anch’esso caratteristiche molto diverse. Quello statunitense è reale – la quota americana della produzione industriale mondiale è scesa dal 50 per cento del 1950 a meno del 20 per cento e gli Stati Uniti affrontano per la prima volta una potenza davvero competitiva – ma è solo relativo. Anche grazie all’immigrazione, l’economia americana ha continuato a crescere e così hanno fatto la scienza, la tecnologia e gli armamenti del paese. L’economia, l’industria, la scienza e le università europee hanno dovuto invece fare i conti con una quasi stagnazione che in diversi paesi e in alcuni settori chiave (cellulari, computer, intelligenza artificiale ecc.) si è trasformata in marginalità. Questo mentre il resto del mondo – Cina, India e altri paesi asiatici, ma ora anche africani – cresceva a ritmi vertiginosi, una esperienza certo contraddittoria ma straordinaria, che ha fatto uscire miliardi di persone dalla povertà estrema e creato nuove e gigantesche classi medie, una realtà spesso dimenticata da chi fissa la sua attenzione sulle disuguaglianze estreme. La distanza dal vecchio Occidente si è così progressivamente accorciata, le città più grandi del mondo sono ormai altrove, il peso percentuale della popolazione europea su quella mondiale è passato in un secolo da circa il 25 per cento a meno del 10, mentre i neonati di origine europea crollavano dai quasi un quarto del 1913 al 7 per cento del 1974 e al 3 del 2023.
E’ questo lo sfondo su cui vanno lette le illusioni di vittoria del 1991, quando un mondo che andava cambiando rapidamente parve riconducibile a un modello, a un’area geografica e a una popolazione che avevano già superato il loro zenith. Malgrado il massacro di piazza Tienanmen persino le riforme economiche cinesi parvero rondini di liberalizzazioni politiche, e furono sottovalutate le devastazioni, anche intellettuali e morali, prodotte dai sistemi socialisti. Ma la sconfitta della modernità socialista, quella del piano e dello stato, e il successo, reale, di quella del mercato, avrebbero dovuto invece spingere a vedere i trend che minavano le società prodotte da quest’ultima, a partire da quelli demografici. I problemi furono aggravati da scelte dei leader europei che parvero e furono coraggiose – come quelle, oggi criticate, dell’apertura a est – ma anche piagate da ipocrisia e mancanza della capacità di vedere oltre l’orizzonte immediato. La prima è rappresentata dalla scelta di allargare senza modificare i meccanismi decisionali – cosa magari impossibile ma per cui non fu data battaglia – chiamando pomposamente Unione ciò che era meno di un condominio, apprezzabile certo e anche prezioso, ma appunto tale. La seconda da un eurocentrismo e una miopia che col senno di poi appaiono incomprensibili: come se la pace in Europa equivalesse ancora alla pace nel mondo; come se la difesa non fosse più un problema e si potessero lasciare le chiavi di casa ad altri, destinati a rimanere sempre, in fondo, “europei” quando anche noi stavamo e rapidamente cambiando; come se la scienza e l’economia europea fossero ancora il meglio o comunque alla pari del meglio esistente; come se fosse possibile lasciare lo sviluppo di settori strategici, di cui i cinesi e gli indiani avevano capito benissimo l’importanza, agli Stati Uniti ecc.
I nodi sono venuti al pettine alla fine del primo decennio del nuovo millennio, all’incrocio tra disimpegno americano, di cui Obama è stato un simbolo; rifiuto statunitense di riconoscere la crescita cinese; ripresa di aggressive politiche russe di ricostruzione imperiale; crisi economica e finanziaria e prime, ma chiare e forti manifestazioni dell’impatto negativo della decrescita demografica sull’economia, il welfare, il mood e la vitalità di società europee invecchiate e poco disposte ad aprirsi anche perché comprensibilmente in preda a depressione ostile. Il Covid e poi la guerra hanno quindi solo reso ancor più nitido un quadro già a forti tinte, e oscure. Reagire non è facile, ma è ancora possibile se si ricorda in primo luogo che la storia va velocissima: il periodo d’oro dell’Europa è durato secoli, il secolo americano è stato appunto uno, e la gloria cinese, appena sorta, è già minata dalla demografia. E in secondo luogo che anche per questo il passato non esiste, se non come condizionamento, positivo e negativo di un futuro che è invece, e paradossalmente, l’unica cosa che esiste davvero, proprio perché è possibile costruirlo.
Quello che serve fare è difficile, ma è ormai noto. Un nuovo futuro richiede un nuovo Occidente, unito nella ricerca di dignità e libertà umane declinate in modo nuovo; questo nuovo Occidente non potrà (ne dovrà) essere solo bianco e atlantico, bensì globale; l’Europa, se vuole esistere, deve esserne uno dei poli principali accanto a quello statunitense, che non va dato per perso; questo vuol dire in primo luogo possedere una propria e comune capacità strategica, cioè nucleare, e quindi fare nostra, allargandone la scala, la visione di de Gaulle, che sapeva che non si può contare sugli altri; infine, questo nuovo Occidente dovrà avere organizzazioni, a cominciare da quella militare, fondate su valori comuni, come ci insegnano il fallimento delle Nazioni Unite e quello parziale della Unione europea. Quest’ultima è uno strumento prezioso che andrà usato per fare quello sa fare, per esempio grandi progetti cooperativi scientifici o industriali. Non sarebbe male trovare il modo di punire chi la sabota perché ha valori diversi, ma la cosa indispensabile se si vuole sopravvivere è costruire un nucleo non troppo largo di paesi chiave disposti ad allargare l’area del loro coordinamento, senza diritti di veto ma solo con maggioranze più o meno qualificate.
Il nuovo Occidente globale e le sue organizzazioni dovrebbero comprendere ovviamente paesi come il Canada, l’Australia, il Giappone, la Corea del sud, ma anche quelli latinoamericani pronti a condividerne i valori, e soprattutto dovrebbe aprirsi a grandi paesi come l’India, i cui legami con l’Europa – in campo linguistico ma anche economico, culturale e politico – sono più forti di quanto non si creda, e sperabilmente anche all’Africa. Da questo punto di vista le irresponsabili e poco riflesse politiche di Trump – che hanno sospinto un paese che già si staglia come nuova grande superpotenza mondiale verso la Cina – sono un danno gravissimo, cui forse l’Italia può aiutare a porre rimedio, come Meloni ha già dato segno di voler fare. Il partito di Modi ha infatti tra i suoi ispiratori il traduttore di Mazzini e Fratelli d’Italia è sì l’inno della nostra Repubblica, ma anche quello del mazzinianesimo. Certo Mazzini si presta a letture diverse, di cui una di chiusura nazionale e nazionalista – che era quella di Savarkar, di Modi e anche della tradizione da cui viene Meloni – ma ha dentro molto altro e molto di più, come l’apertura al mondo, alla libertà e alla democrazia, e chi a lui si ispira potrebbe seguirlo anche su questa via. Certo, sono tutte scommesse difficili e che non è improbabile perdere, ma solo chi gioca può sperare di vincere.

l'editoriale dell'elefantino