(foto EPA)

un estratto del libro

A Jenin sono in pochi a credere ancora nella diplomazia. Un reportage

Cecilia Sala

I palestinesi come Firas vengono rimpiazzati dai giovani con il fucile che dicono: la politica non serve. La storia di suo figlio Samih

Pubblichiamo un estratto del libro di Cecilia Sala “I figli dell’odio” (Mondadori Strade Blu) da oggi in libreria.



Quando arrivo a Jenin sta per cominciare un altro raid israeliano. Non se lo aspetta nessuno, non me lo aspetto neanche io – le incursioni cominciano sempre col buio, ma adesso è mattina. Sono al confine della città e bisogna prendere una decisione: verso dentro o verso fuori. Dentro significa poter seguire gli eventi, ma anche rischiare di rimanere bloccata senza connessione internet per un tempo che non posso prevedere in anticipo.

Il raid inizia come iniziano sempre i raid israeliani. L’esercito accerchia gli ospedali della città, perché è un modo comodo di scovare i miliziani palestinesi aspettando che portino un compagno ferito a farsi curare o un compagno morto all’obitorio. Questa prassi ha un effetto: scoraggia i feriti, sia combattenti sia civili, dall’andare al pronto soccorso durante un raid se ne hanno bisogno. Poi arrivano i bulldozer, quelli israeliani hanno il soprannome beffardo di “orsacchiotti”, sono mezzi corazzati con una grossa ruspa attaccata al muso la cui missione è la distruzione. Spaccano l’asfalto e controllano se sotto qualcuno ha piantato dell’esplosivo: in una delle ultime incursioni qui a Jenin una soldata etiope-israeliana è saltata in aria su una bomba nascosta sotto il manto stradale. Quando spaccano l’asfalto, i bulldozer fanno affiorare le fogne e avvolgono nel puzzo interi quartieri, così le ragazze che portano il velo – mentre corrono – se lo tirano su fino a coprire il naso. In questi istanti i palestinesi smettono di guidare, di fare la spesa, di servire ai tavoli, di portare i bambini a scuola, di fare qualsiasi cosa e si chiudono in casa senza sapere per quanti giorni ci dovranno rimanere. Intanto i soldati israeliani sono passati alla fase successiva. Tagliano l’elettricità e la rete telefonica, bloccano le strade con i blindati, piazzano cecchini con i loro fucili di precisione ai piani alti delle case dei palestinesi e cominciano a sparare.

Sono venuta a Jenin per incontrare Firas Abu el Wafa, e mentre succede tutto questo ormai sto correndo in salita verso casa sua. E’ un signore distinto sulla sessantina, la battaglia di oggi non lo riguarda, ma durante la Prima intifada, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, Firas fabbricava in casa piccole bombe che poi lanciava contro i soldati israeliani come quelli che adesso stanno circondando il suo palazzo.

Una delle case che i cecchini scelgono per posizionarsi durante i raid è la casa di Firas, perché è un buon punto di osservazione: è in alto, fa parte dell’ultima fila di edifici prima del campo profughi e affaccia su di esso. Quando entrano, i soldati vedono il poster di un miliziano armato appeso al muro, così prendono un coltello e tagliano la pelle del divano di Firas facendo uscire la gommapiuma. Poi usano la carta da parati verde ai muri delle stanze come fosse una grande lavagna e ci scrivono sopra in ebraico con il pennarello o la bomboletta spray. Di notte le soldate prendono la camera matrimoniale di Firas e di sua moglie per riposare a turno, e i due devono trovarsi un altro posto dove stare, una cosa non semplice in una città assediata mentre è in corso un raid. Tutte le occupazioni militari di un popolo che non ti vuole si reggono sull’umiliazione oltre che sulla paura, e il modo in cui i cecchini israeliani sfregiano la casa di Firas ogni volta che ci mettono piede ne è un esempio. 

Firas mi offre un tè già zuccherato, mi indica una poltrona in finta pelle lontana dalle finestre dove posso accomodarmi e cominciamo a parlare. Mi descrive Jenin per quella che storicamente è: la città più indomita della Cisgiordania occupata. All’inizio degli anni Duemila, un settore in particolare di Jenin, il campo profughi, era soprannominato “il nido di vespe” o “la capitale dei martiri”. Quando sentiamo la parola campo profughi, spesso ci immaginiamo una distesa di tende, ma la realtà nei territori occupati è diversa: i campi profughi si chiamano così perché ospitano i palestinesi cacciati da Israele durante la Nakba nel 1948, ma nel corso dei decenni si sono trasformati in veri quartieri fatti di edifici e strade. Vent’anni fa quello di Jenin era un’area anarchica governata da milizie locali in un rapporto conflittuale con l’Autorità nazionale palestinese: quando l’Anp aveva provato a prenderne il controllo, le milizie avevano sparato sugli uomini delle sue forze di sicurezza.

Il campo era anche il posto da cui arrivavano moltissimi degli attentatori suicidi che all’epoca mandavano nel panico le città israeliane, e dove la maggior parte degli attacchi terroristici venivano organizzati. In un punto non lontano da qui nel nord della Cisgiordania era stato pianificato l’attentato del 27 marzo 2002 al Park Hotel di Netanya, dove il venticinquenne Abdel Basset Odeh era arrivato travestito e truccato da donna, con la parrucca e una borsetta con dentro una bomba da dieci chili, per farsi saltare in aria nella sala da pranzo dell’albergo dove si stava svolgendo un seder, la cena tradizionale per celebrare la Pasqua ebraica. L’esplosione aveva ucciso 30 persone oltre a lui e ne aveva ferite 140, per la maggior parte anziani ebrei, tra cui alcuni sopravvissuti all’Olocausto. Era stato l’attacco suicida più grave nella storia di Israele ed era stato rivendicato da Hamas.

Poche settimane dopo, l’esercito israeliano aveva deciso di entrare nel campo profughi di Jenin. All’inizio di aprile c’era stata una battaglia durata dieci giorni tra l’esercito e i miliziani delle fazioni locali, comandati da Abu Jandal, che aveva combattuto in Libano e nell’esercito iracheno ed era una leggenda per i palestinesi. Mentre Israele isolava il campo profughi, i miliziani del posto preparavano il terreno piazzando migliaia di bombe e trappole esplosive un po’ ovunque, ma soprattutto nelle case degli uomini ricercati dallo Stato ebraico, perché erano certi che l’esercito sarebbe andato a perquisirle. Poi era cominciata la battaglia strada per strada: da una parte i palestinesi che avevano il vantaggio di conoscere il terreno, dall’altra gli israeliani che avevano gli elicotteri Apache, i carri armati e i bulldozer “orsacchiotti” per radere al suolo intere zone del campo. Era stata la battaglia più difficile per l’esercito israeliano dai tempi della guerra in Libano del 1982 e qui a Jenin è rimasta impressa nella memoria di tutti.

Un mese dopo, Yasser Arafat era venuto a Jenin e aveva paragonato la resistenza del campo profughi alla battaglia di Stalingrado, la più famosa della Seconda guerra mondiale ma anche, con i suoi 2 milioni di morti, quella considerata la più sanguinosa della storia. “Questa è Jeningrado” aveva detto il capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Intendeva: a prescindere dal sangue che verrà versato dai suoi abitanti, Jenin è la città che non cederà mai all’occupazione. “E’ la capitale della violenza, della militanza e della resistenza palestinese alle occupazioni di tutte le epoche”. Firas quel giorno c’era e quando mi racconta il comizio dell’uomo che è rimasto il suo mito cambia postura, apre il petto, alza il mento e usa un tono commosso ma assieme trionfante.

Ai tempi della Seconda intifada Firas è ancora giovane, ma non partecipa neppure a quella guerriglia. Ha chiuso con la lotta armata poco prima, negli anni Novanta, quando viene arrestato dagli israeliani che lo condannano a quindici anni di carcere, ma lui non ne sconta nemmeno uno. Lo salva il dialogo, lo salvano gli accordi di Oslo dell’agosto 1993. Firas viene amnistiato e da quel momento – dato che gli hanno risparmiato quindici anni di prigione, gli hanno regalato la libertà e la possibilità di farsi una vita – comincia a credere nei negoziati. Crede nella diplomazia e nel processo di pace. Crede in Yasser Arafat, che quegli accordi li ha firmati stringendo la mano al primo ministro israeliano Yitzhak Rabin – poco prima che venisse ammazzato dagli estremisti e che il processo di pace morisse con lui, tra i festeggiamenti di Itamar Ben-Gvir.

Da adulto, Firas cerca di passare questo insegnamento a suo figlio: che parlarsi è utile, che la diplomazia può funzionare, che se non ci fosse stata la diplomazia lui non sarebbe proprio nato, perché “papà sarebbe stato in cella invece che assieme a tua madre”. Anche se non sembra, anche se gli accordi di Oslo oggi sono falliti, anche se la lotta armata è più netta e fa più impressione, il momento in cui una nazione palestinese è stata più vicina a esistere è stato quando Arafat e Rabin si sono stretti la mano. Non quando Hamas ha fatto saltare in aria un gruppo di anziani ebrei al Park Hotel di Netanya. 
Firas non ha alcuna stima di Hamas, nel senso che lo considera politicamente scarso.

Ricomincia a raccontarmi del figlio, un adolescente smilzo e arrabbiato che ascolta le sue filippiche su Arafat e sulla diplomazia in rispettoso silenzio sdraiato sul divano, e che non oserebbe mai interrompere suo padre. Ma che non crede a una parola di quello che ascolta. Lui, Samih, non ha vissuto l’entusiasmo del processo di pace ma soltanto le macerie che ha lasciato il suo fallimento. Della diplomazia lui non si fida, si fida degli M-16. E in un posto sicuro a un chilometro da casa nasconde tre fucili d’assalto. 

Il raid che è cominciato mentre mi arrampicavo sulla salita per raggiungere la casa di Firas serve a stanare e uccidere i compagni di katibah – di battaglione – del figlio Samih, che è morto l’anno scorso, a 19 anni, con il fucile in mano. 
Il giorno in cui Samih è stato ucciso, l’esercito era entrato a Jenin per cercare un miliziano di Hamas che la settimana prima aveva sparato a due israeliani a Huwara: l’attacco che aveva innescato le violenze di massa contro i palestinesi da parte dei coloni, con case e automobili incendiate, con cento feriti e un morto, che il comandante israeliano responsabile della zona aveva definito “un pogrom”.

L’ultima immagine che abbiamo di Samih è diventata famosa, virale sui social, messa in pagina dai quotidiani internazionali: lo vediamo a cavalcioni di una finestra, in jeans, camicia azzurra e passamontagna, che con una mano si tiene al cornicione e con l’altra spara con un fucile d’assalto, mentre qualcuno da dentro la casa lo tiene per la cintura di modo che non perda l’equilibrio. 
Dato che la sua foto l’hanno vista tutti, i gruppi armati palestinesi hanno fatto a gara a rivendicare Samih come uno dei propri. Le brigate al Quds, l’ala militare del movimento per il Jihad islamico in Palestina, dicono che era un miliziano delle brigate Jenin, legate al gruppo. C’è anche una canzone su di lui: “Il popolo chiede: chi è l’uomo mascherato nella foto? / è il nostro eroe Samih Abu el Wafa, la leggenda / è apparso in armi dalla finestra, con il volto coperto / il leone delle imboscate, il comandante martire Samih Abu el Wafa”.

Firas non si aspettava le migliaia di ragazzini sconosciuti che si sono presentati al funerale di suo figlio e si sono complimentati con lui “per aver messo al mondo un eroe della resistenza”, perché, dice, non sapeva niente della doppia vita di Samih. Ascoltava quelle lusinghe e rimaneva zitto, nel silenzio imbarazzato di un padre che ha capito chi fosse e cosa volesse davvero il figlio soltanto quando ha riconosciuto gli stivaletti Blundstone che gli aveva regalato nella foto diventata celebre.

Nella casa di Firas ci sono due enormi fotografie del figlio morto appese alle pareti. La prima è il suo poster da martire, la classica immagine che viene creata per ricordare i miliziani delle fazioni palestinesi uccisi mentre sparavano contro gli israeliani: un fotomontaggio del ragazzo con alle spalle la cupola della roccia a Gerusalemme. La seconda è una foto più esplicita: Samih con i suoi tre fucili

Dopo anni in cui Samih ha ascoltato Firas parlare di diplomazia in silenzio, rispettoso, anche se non era d’accordo, ora è Firas che ascolta il figlio in silenzio guardando le sue fotografie. Ma continua a non essere d’accordo. “Perché qui bisogna reimparare a parlare di politica, perché quella è una scelta che non funziona” mi dice infervorandosi mentre parliamo nel buio. La Palestina esisterà davvero come stato, va avanti, quando i palestinesi avranno convinto la comunità internazionale: bisogna convincere la Germania, l’Italia, la Cina, la Svizzera, il Canada, gli Stati Uniti, con un piano politico. “Per quanto la diplomazia ai ragazzi possa sembrare un’idea superata, o peggio un’idea ingenua, è molto più ingenuo pensare di poter sconfiggere Israele militarmente”. 
E Jenin sarà anche Jeningrado, ma essere indomabili, se significa anche essere politicamente immobili, “non serve e non basta”.

Il fatto è che gli anziani che la pensano come Firas stanno diventando sempre più una minoranza in Palestina, così come in Israele ci sono sempre meno persone del tipo di Daniel Seidemann e Gershon Baskin che credono in una soluzione politica. La palla è passata ai delusi e agli intransigenti, ai giovani col fucile, come in Israele sta passando ai giovani delle colline.

Da questo lato del muro di separazione quelli come Firas, che non sono pacifisti ma realisti, che vogliono parlare di politica, stanno venendo rimpiazzati da quelli che dicono di non volere più parole, ma azioni – azioni violente sul terreno, contro i fatti sul terreno dell’occupazione. Anche Ghazi Hamad, il più trattativista dentro Hamas che negli ultimi vent’anni ha parlato con Baskin, oggi va in televisione a dire che il 7 ottobre è stato soltanto l’inizio. Dall’altro lato, in Israele, quelli che tifavano la morte dell’ultimo leader israeliano a volere la pace, come Ben-Gvir, o facevano piani per far saltare in aria pezzi di autostrade israeliane in risposta alla decisione di smantellare le colonie a Gaza, come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, raggiungono posizioni di governo. Né gli uni né gli altri vogliono la pace o la sicurezza: entrambi vogliono tutto, from the river to the sea.

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