l'analisi

La Francia non fa i conti con i conti fuori controllo

Luciano Capone

Dal 2007 il debito è salito dal 65% al 116%, il deficit al 5,6% è il più alto dell'Eurozona e lo spread sale. Ma il Parlamento boccia l'aggiustamento del bilancio e la società rifiuta l'austerità. Ci penseranno i mercati a risvegliare i francesi

La Francia è prossima a una nuova crisi politica, che dovrebbe produrre il quinto governo in due anni. Senza riuscire neppure a incidere sull’enorme problema fiscale del paese. Il primo ministro François Bayrou, che ha chiesto un voto di fiducia per l’8 settembre sul suo piano di tagli alla spesa da 44 miliardi di euro, ieri dalla tv si è rivolto di nuovo al popolo francese per spiegare quanto è grave la situazione. Il problema è che le sue sorti non dipendono tanto dai francesi, ma dall’Assemblea nazionale dove Bayrou non ha una maggioranza. Verosimilmente il governo cadrà. A quel punto il presidente Emmanuel Macron dovrà decidere se provare con un nuovo governo di minoranza, dopo il fallimento degli ultimi due. Oppure sciogliere l’Assemblea e convocare nuove elezioni dopo appena un anno. Ma non c’è ragione di credere che il voto mostrerebbe un quadro molto diverso dall’attuale Parlamento diviso in tre tronconi – sinistra, centro e destra – senza una chiara maggioranza.

Ma il problema non è politico, è più profondo. L’intera società francese, almeno nella sua parte maggioritaria, non sembra avere fatto i conti con la realtà. Il 10 settembre, due giorni dopo il voto di fiducia, è prevista una manifestazione chiamata “Blocchiamo tutto”. Tutto tranne il deficit. Lo scontro non è tanto su come fare l’aggiustamento fiscale, ma sulla necessità di farlo. Una sfida aperta alle leggi della matematica, che mostrano un deficit ampio che gonfia inesorabilmente un debito enorme. (Capone segue nell’inserto III)
Il debito pubblico francese era al 65 per cento nel 2007. Ora è al 116 per cento e cresce di 3 punti ogni anno, a causa della persistenza di un deficit tra il 5 e il 6 per cento, che è il più alto dell’Eurozona. Il piano fiscale concordato con la Commissione europea prevede un rientro sotto il limite del 3 per cento entro il 2029, ma quella data pare un miraggio visto che la politica e la società francesi non sembrano intenzionate ad aggiustare i conti. Sembra che tutti aspettino di governare sulle macerie lasciate da Macron, che ha innegabili responsabilità sulla situazione attuale. Ma nessuno – dall’estrema destra di Marine Le Pen all’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon – ha un piano alternativo.

Olivier Blanchard, economista keynesiano per formazione non ostile all’indebitamento, ha ribadito che “è essenziale ridurre il deficit di bilancio e iniziare ora. Non c’è alternativa”. L’anno scorso l’aveva spiegato, in un articolo su Le Point, facendo due semplici conti: il debito si può stabilizzare solo con un pareggio del bilancio primario (al netto della spesa per interessi), e siccome il disavanzo primario della Francia è attorno al 3 per cento del pil, l’aggiustamento minimo richiesto è appunto di 3 punti di pil (4 punti se invece si vuole iniziare a ridurre il debito). Non è un’opinione politica, ma semplice aritmetica del debito.

Non a caso, alla stessa conclusione era giunto il Conseil d’analyse économique, il gruppo di economisti che supporta le decisioni del governo, in una nota del settembre 2024 in cui raccomandava un avanzo primario di circa un punto di pil nel medio termine per stabilizzare il debito, mantenendo un margine di manovra per affrontare eventuali crisi. Quel documento prodotto dagli economisti Adrien Auclert, Thomas Philippon e Xavier Ragot dava anche indicazioni sulla composizione del consolidamento fiscale, preferendo il taglio della spesa all’aumento delle tasse. Per tre ragioni: la pressione fiscale è già molto alta e un ulteriore incremento inciderebbe sulla competitività francese; gli aggiustamenti fiscali che in passato hanno avuto più successo a ripristinare la sostenibilità dei conti pubblici sono quelli basati su tagli alla spesa; infine perché la spesa pubblica francese è molto più alta della media europea e ha molte sacche di inefficienza.

Naturalmente queste sono considerazioni più politiche su come ridurre il deficit, e ogni partito può avere una visione diversa rispetto al livello di spesa e pressione fiscale più adeguati. Su questo il confronto democratico sarebbe salutare, oltre che legittimo. Il problema è che lo spettro politico francese, da destra a sinistra, è dominato da forze che rifiutano il consolidamento fiscale: no alla riforma delle pensioni, no all’aumento delle tasse e no alla riduzione della spesa. Questo però è possibile solo fino a quando c’è qualcuno disposto a finanziare il deficit. E gli investitori, come mostra l’aumento del rendimento dei titoli di stato francesi, iniziano a chiedere un premio superiore per il rischio.

I mercati guardano con preoccupazione il deterioramento politico e fiscale del paese. Nelle prossime settimane, tra il 12 settembre e il 12 dicembre, inizierà il round di giudizi delle agenzie di rating. La prima a esprimersi sarà Fitch, che l’anno scorso aveva dato alla Francia il rating AA- aggiungendo un outlook negativo a causa dei “significativi rischi fiscali dovuti a consistenti deficit fiscali e crescenti livelli di debito pubblico”. Nella sua ultima nota di marzo, Fitch segnalava che la Francia ha la spesa pubblica (57 per cento del pil) più alta tra i paesi con rating AA; un deficit attorno al 6 per cento che è più del doppio dei paesi con rating AA; una spesa per interessi ben superiore alla mediana del gruppo AA; un debito pubblico proiettato al 120 per cento del pil nel 2028, che nei paesi con rating AA è secondo solo agli Stati Uniti. Insomma, Fitch stava avvisando i francesi che senza un forte aggiustamento dei conti Parigi uscirà dal club dei paesi con la doppia A.

L’8 settembre l’Assemblea nazionale molto probabilmente voterà la sfiducia al governo. Il 10 settembre ci sarà la manifestazione “Blocchiamo tutto” contro l’austerità. Il 12 settembre Fitch emetterà il primo giudizio delle agenzie di rating. Del parere di chi compra il loro debito la politica e la società francesi, prima o poi, dovranno tenerne conto.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali