Ponti d'oro

Cosa insegna l'epopea del Golden Gate di San Francisco sullo Stretto di Messina

Marco Bardazzi

Gli ambientalisti, il rischio sismico, i dubbi dei militari. Ogni anno attraversano il Golden Gate Bridge 33 milioni di veicoli. È costato 35 milioni di dollari di allora, ne frutta 150 all’anno in pedaggi

Erano gli anni Venti, c’era da costruire un ponte sullo Stretto e sembrava un’impresa titanica. Il progetto prevedeva la realizzazione del ponte sospeso più lungo del mondo, un’opera di alta ingegneria che doveva fare i conti con molteplici sfide. I costi erano proibitivi, c’erano interrogativi sulla necessità di unire i due estremi dello Stretto, i militari ragionavano sugli aspetti legati alla difesa del paese e la potente lobby dei traghetti era in rivolta, perché temeva (con ragione) di veder crollare i profitti. Gli ambientalisti erano sul piede di guerra, convinti che l’ecosistema sarebbe stato impattato in modo irrimediabile dalle tonnellate di cemento e acciaio in arrivo. Vari comitati “No Ponte” si erano formati nelle comunità locali sulle due sponde dello Stretto, per impedire un’impresa che ritenevano folle. Come se tutto questo non bastasse, bisognava fare i conti con i venti e le correnti, notoriamente insidiosi in quella zona, e soprattutto con i terremoti: il ponte sarebbe stato realizzato in un luogo ad alto rischio sismico.

   
Quella che avete appena letto sembra una cronaca del futuro, che parla di questi anni Venti e del ponte sullo Stretto di Messina. Invece è il clima che si viveva a San Francisco un secolo fa, mentre la città si apprestava a realizzare un’opera nata tra mille sfide e poi diventata un successo e un’icona americana: il Golden Gate Bridge. Oggi il ponte rossiccio è un’infrastruttura decisiva e anche un’attrazione turistica, uno sfondo ricercatissimo per i desktop e per le storie su Instagram. Ogni anno lo attraversano trentatré milioni di veicoli su sei corsie e milioni di persone lo inquadrano da ogni altura e da svariate prospettive per fotografarlo. È costato 35 milioni di dollari (circa un miliardo di dollari attuali), che ha recuperato nel giro di pochi decenni e oggi frutta 150 milioni l’anno in pedaggi. Una storia di indubbio successo, ma che all’inizio è stata tormentata quanto quella del ponte tra Sicilia e Calabria. 

  
I 1.280 metri di campata unica del ponte californiano non sono più da tempo un record, negli anni Sessanta del secolo scorso li aveva già superati il Verrazzano Bridge di New York e attualmente ci sono una decina di opere analoghe in Cina che ne battono la lunghezza. Per non parlare dei duemila metri di sospensione del Ponte dei Dardanelli. Eppure, se si cerca un precedente e un punto di riferimento che aiuti a immaginare cosa cambierà unendo Messina e Villa San Giovanni con un ponte di tre chilometri di campata, bisogna andare a riscoprire la storia dello stretto del “cancello dorato”, che permette l’accesso dall’Oceano Pacifico alla Baia di San Francisco e a quel pezzo di California dove si trovano tra l’altro la Silicon Valley, Oakland e i campus di Berkeley e Stanford. Oggi dici “Golden Gate” e uno pensa immediatamente al ponte diventato un simbolo di San Francisco, ma in realtà fino a un secolo fa era solo il nome dello stretto che separa la città dalla sponda nord della baia. Come per lo Stretto di Messina, anche in California si era discusso per decenni della necessità di costruire un ponte “sopra” il Golden Gate, per dare respiro a San Francisco. 

  

Se ne parlò per la prima volta nel 1872. Il terremoto del 1906 poteva essere la fine di San Francisco, ne segnò la rinascita. Il via libera nel ’30

   
Il primo a parlarne nel 1872 era stato l’imprenditore ferroviario Charles Crocker, che aveva intuito l’imminente boom in arrivo per una città nata soprattutto come luogo di svago per pionieri e cercatori d’oro. San Francisco era un gigantesco bordello, visto con orrore dal resto dell’America, ma serviva a tenere buoni con alcol e prostitute gli operai delle ferrovie e tutti gli avventurieri che si spingevano verso la California. Poi nel 1906 era arrivato il terribile terremoto che aveva raso al suolo l’ottanta per cento della città, scatenato incendi proseguiti per settimane e ucciso tremila persone. Due anni dopo la stessa sorte sarebbe toccata a Messina e Reggio Calabria, per un terremoto di magnitudo simile (le stime li collocano entrambi tra 7 e 8 sulla scala Richter) con epicentro nello Stretto, che provocò tra le settanta e le ottantamila vittime. Le due città e i due stretti da allora si assomigliano nella tragedia: quello di San Francisco del 1906 resta il peggior terremoto nella storia americana, quello di Messina del 1908 il peggiore in Europa. 

      
Poteva essere la fine di San Francisco, ma il terremoto ne segnò in realtà la rinascita e il definitivo decollo. E la sismicità non cancellò neppure i sogni del ponte, rilanciati nel 1916 da James Wilkins, editore del giornale locale “San Francisco Call Bulletin”. L’idea prese forza negli anni Venti, quelli del boom americano, quando le strade cittadine cominciarono a essere invase dalle auto. Tutti volevano spostarsi e girare in macchina, ma se da San Francisco si usciva bene in direzione sud, andando verso San Josè dentro quella valle di piantagioni di albicocche che ancora non aveva scoperto le meraviglie del silicio e dell’elettronica, tutt’altra storia era dirigersi a nord. Per attraversare lo stretto del Golden Gate, a meno di non viaggiare un’intera giornata costeggiando tutta la baia, l’unica opzione erano i traghetti della Southern Pacific-Golden Gate Ferries, che erano diventati così redditizi da farne la più importante società di traghetti in quel momento al mondo. Due milioni e mezzo di vetture attraversavano ogni anno in traghetto lo stretto alla fine degli anni Venti, ma già dall’inizio del decennio si erano verificati giganteschi ingorghi agli imbarchi, con attese fino a diciotto ore per poter salire con l’auto sulle navi. 


L’amministrazione cittadina di San Francisco cominciò a ragionare seriamente sull’idea del ponte, ma gli ingegneri erano scettici sulla fattibilità tecnica e stimavano un costo stellare, non inferiore ai 100 milioni di dollari. A sbloccare tutto fu l’entrata in scena di Joseph Strauss, un ingegnere dell’Ohio figlio di immigrati ebrei tedeschi, che si stava facendo una reputazione di innovatore a Chicago. Strauss promise di poter realizzare l’impresa con 25-30 milioni di dollari, grazie alle nuove tecniche di sospensione della campata che aveva messo a punto. 

  

  
Per tutti gli anni Venti, Strauss fu il protagonista assoluto, nel bene e nel male, del progetto di costruzione del ponte di San Francisco. Personaggio collerico e geniale, univa la competenza tecnologica alla passione per la poesia ed era fortemente convinto – in anticipo sui tempi – che la vera arma da usare per ottenere il via libera al progetto fosse la comunicazione. Strauss si trasferì a San Francisco a promuovere costantemente il ponte, dando interviste e organizzando eventi e campagne promozionali. Il primo progetto che sottopose al sindaco e al City Council, però, era esteticamente brutto, assai lontano dal Golden Gate che conosciamo oggi, con torri pesanti e gabbie di metallo che lo rendevano un oggetto alieno in mezzo alla baia. Le reazioni negative non si fecero attendere e fu necessario affiancare a Strauss una serie di altri esperti per arrivare ad alleggerire tutta la struttura e atterrare sul progetto finale: un ponte con due torri in stile Art Deco di 227 metri l’una, alto una settantina di metri dal mare e reso elegante da cavi di sospensione agili e di ben minore impatto estetico rispetto al primo disegno. 

  
Ma progettare il ponte era solo una parte della sfida. Per tutti gli anni Venti l’opera fu al centro di attacchi da parte della società dei traghetti, che prima lanciò campagne pubblicitarie anti ponte e riempì i giornali di insinuazioni sull’utilità dell’opera, sulla sua sicurezza, sui rischi legati alla sismicità della zona. Poi, non riuscendo a frenare l’iter del progetto, si lanciò in otto anni di azioni legali, presentando 2.307 denunce e ricorsi contro l’opera e ricorrendo fino alla Corte Suprema per bloccarla. Ma alla fine la Southern Pacific-Golden Gate Ferries ne uscì sconfitta, i giudici diedero il via libera alla costruzione. 


A fermare il ponte provarono negli stessi anni gli ambientalisti, che sostenevano avrebbe devastato l’ecosistema locale, disorientato gli uccelli, distrutto la fauna marina. Ma anche in questo caso le autorità locali di San Francisco non arretrarono di un millimetro. Più complesso risultò convincere il ministero della Guerra, perché la Marina – che aveva il controllo della Baia di San Francisco – temeva che il ponte potesse rappresentare una minaccia. Qualcuno tra gli strateghi militari ipotizzò uno scenario in cui una potenza nemica nel Pacifico, per esempio il Giappone, attaccasse gli Stati Uniti bombardando il ponte e rendendo così inaccessibile la Baia. Non era un’idea campata in aria, visto quello che sarebbe accaduto qualche anno dopo, nel 1941, nella baia di Pearl Harbor alle Hawaii. Prevalse però l’idea che il ponte fosse più un’opportunità che un rischio anche per i militari e che avesse un valore strategico, permettendo una maggiore velocità anche per gli spostamenti di truppe. Un altro precedente utile oggi, mentre si riflette sul ponte sullo Stretto di Messina che costruirà Webuild come opera anche di valenza strategica dal punto di vista della Difesa europea. L’11 agosto 1930 il ministero della Guerra diede il proprio decisivo via libera ai lavori.  

   

La crisi del ’29 non fermò l’opera. I finanziamenti privati furono garantiti dai cittadini con bond che sarebbero stati finiti di ripagare solo nel 1971

   
La più grande minaccia alla costruzione del Golden Gate Bridge venne però dall’economia americana. Nell’ottobre del 1929, mentre l’iter per il ponte stava per arrivare alla fase esecutiva, Wall Street crollò e l’America entrò nell’epoca della Grande Depressione. San Francisco si trovò in una condizione analoga a quella di New York, in piena crisi mentre si costruivano grattacieli come l’Empire State Building o il Chrysler. Ma come per Manhattan, anche nella baia californiana si decise di andare avanti, per l’importanza che aveva l’opera e anche perché era un’opportunità per dare lavoro a migliaia di disoccupati. 


Il problema erano i soldi, perché il governo federale restava fedele alla ricetta repubblicana degli anni Venti e non intendeva finanziare opere pubbliche, lasciando alle comunità locali il compito di arrangiarsi. Tutto cambiò pochi anni dopo con il New Deal di Franklin D. Roosevelt e le sue politiche keynesiane, ma nel 1930, quando si doveva cominciare a costruire il ponte, alla Casa Bianca c’era ancora Herbert Hoover e San Francisco doveva fare tutto da sola. 


E qui avvenne la circostanza forse più sorprendente nella storia del Golden Gate Bridge. Le banche acconsentirono a finanziarlo, ma chiesero come garanzia per coprire i 35 milioni di dollari necessari che i cittadini si impegnassero a sottoscrivere bond che in pratica mettevano un’ipoteca sulle loro case, officine e fattorie. Scoppiò una furibonda battaglia politica, con le realtà contrarie al ponte che si riunirono in un comitato, il “Taxpayers Committee Against the Golden Gate Bonds”, per fermare l’opera. Varie associazioni “no ponte” fecero campagna per convincere i cittadini a respingere i bond, mettendo insieme molteplici considerazioni: l’impatto sull’ambiente, il boom del turismo cittadino che avrebbe invaso le comunità sulla sponda nord, la presunta perdita di valore degli immobili. 


Alla fine fu deciso di far decidere la gente in un referendum. Il 4 novembre 1930 gli elettori di sei contee interessate dal progetto andarono alle urne per rispondere alla domanda se erano d’accordo a ipotecare la casa per costruire il ponte. Joseph Strauss fece campagna elettorale come se fosse un politico, insieme al sindaco repubblicano di San Francisco, James Rolph, che era uno strenuo promotore del ponte. I “sì” alla costruzione prevalsero con 145 mila voti contro 46 mila. Il ponte poteva essere costruito, senza soldi statali o federali ma solo con i finanziamenti privati, garantiti dai cittadini con bond che sarebbero stati finiti di ripagare solo nel 1971. 

  

L’“arancione internazionale”: ancora oggi un team è dedicato a ridipingere ogni giorno parti del ponte per mantenere  l’effetto antiruggine

  
I lavori di costruzione cominciarono il 5 gennaio 1933. C’era da risolvere un ultimo interrogativo: di che colore farlo? C’erano varie proposte, perché tra l’altro la Marina chiedeva che il ponte fosse molto visibile data la presenza costante di nebbia sulla Baia. La soluzione arrivò insieme alle prime lastre d’acciaio prodotte negli stabilimenti siderurgici della costa orientale. L’architetto Irving Morrow, uno dei collaboratori di Strauss, fu colpito dal colore della vernice protettiva antiruggine usata per le lastre e lo scultore italoamericano Beniamino Benvenuto Bufano gli propose di utilizzarlo su tutte le strutture dell’opera, cavi inclusi. Quell’“arancione internazionale”, come fu ribattezzato, mise tutti d’accordo ed è diventato il colore del Golden Gate: ancora oggi un team di quarantadue persone è dedicato a ridipingere ogni giorno parti del ponte, per mantenerne il colore e l’effetto antiruggine. 

     
Il Golden Gate Bridge fu inaugurato il 27 maggio 1937, con un’enorme festa di popolo. Da allora ha resistito non solo al passaggio continuo di quasi 100 mila veicoli al giorno, ma anche all’assalto di 800 mila persone per le celebrazioni dei cinquant’anni del ponte nel 1987 (la campata si piegò per due metri, per il peso eccessivo della folla) e al terremoto di magnitudo 6,9 nella Baia di San Francisco del 1989. Il tutto senza mostrare tracce di vecchiaia e continuando ad attrarre milioni di turisti con il proprio fascino di icona Art Deco.