
fare affari con sharaa
Come un'azienda italiana senza soldi ha vinto un appalto miliardario in Siria
Inchiesta sul mistero delle Damascus Towers, il progetto italiano a Damasco targato Ubako-I, una ditta sconosciuta che con soli 16 mila euro di capitale sociale si è aggiudicata i lavori per costruire una città nella città. "Non è una truffa", assicurano. Ma le zone d'ombra sono troppe
È trascorsa una settimana da quando il presidente siriano Ahmed al Sharaa, con una sontuosa cerimonia al palazzo presidenziale di Damasco, ha annunciato la firma di svariati accordi commerciali con diverse società straniere. La portata dei memorandum di intesa è notevole: 14 miliardi di dollari totali per costruire interi quartieri, metropolitane e un aeroporto. A sorpresa, tra queste società, ne è comparsa anche una italiana, la Ubako-I, una sconosciuta srl con un solo dipendente e un capitale sociale di appena 16 mila euro a fronte del quale promette in Siria un investimento monstre da 2,5 miliardi di dollari, una cifra da fare impallidire i giganti del settore. La piccola società si è aggiudicata l’appalto per costruire le Damascus Towers, un’avveniristica città nella città con edifici e servizi all’avanguardia. L’indagine condotta dal Foglio svela però molte ombre sulla natura di questa sconosciuta azienda milanese, protagonista nel bene o nel male del primo grande accordo per investimenti di un’azienda italiana nella Siria post assadista.
Le prime perplessità nascono leggendo il registro delle imprese della Camera di commercio, dove risulta che Ubako-I, con sede a Milano in via Bocchetto 6, è controllata al 99 per cento da Fayez al Sabea, e dispone di un capitale sociale di poche migliaia di euro. Appena 23enne, nato a Damasco, al Sabea vive nel capoluogo lombardo dove ha fondato nel 2022 la società, divenendone amministratore unico. L’oggetto sociale della Ubako-I dice che fa un po’ di tutto, dagli ascensori, alle scale mobili, dai materiali edili ai prodotti alimentari, farmaceutici e di primo soccorso. Dal sito, il cui dominio risulta essere stato acquistato appena tre mesi fa, cliccando sul collegamento che rimanda alla pagina Facebook del gruppo si arriva a un profilo privato, quello di Bassem al Sabea, un imprenditore nato in Kuwait e padre di Fayez. Era lui a rappresentare l’azienda italiana – non è chiaro a quale titolo – alla cerimonia della firma dei memorandum di intesa a Damasco, dove ha stretto la mano al presidente al Sharaa.
Sulla sua pagina Facebook, Bassem spiega che il progetto con cui la Ubako-I si è assicurata l’appalto è stato elaborato in collaborazione con un’altra società, la Ubako Ltd, che ha sede a Damasco e che, afferma, “ha oltre 45 anni di esperienza nel settore delle costruzioni”. E’ sempre lui, Bassem al Sabea, a rilasciare interviste alle emittenti siriane, spiegando che il progetto della società italiana “porterà 200 mila posti di lavoro ai siriani” mentre le materie prime e altri componenti arriveranno dall’Italia. “E’ per questo che abbiamo aperto la Ubako-I – dice Bassem su Facebook –, per concludere accordi con aziende e governi al di fuori dell’Unione europea mantenendo al contempo il rispetto delle leggi internazionali ed evitando di rimanere intrappolati dalle sanzioni economiche imposte da alcuni paesi”. Tra i primi a condurre un’indagine sulla faccenda sono stati Vittorio Maresca e Benjamin Fave, analisti al Karam Shaar Advisory Limited, una società di consulenza specializzata nella realtà politico-economica della Siria. Nei registri delle imprese attive nel paese in questi anni, spiegano al Foglio i due ricercatori, non risulta alcuna Ubako Ltd. “Con una società sconosciuta in Siria e un’altra in Italia con un capitale sociale così ridotto – dice Maresca – c’è da chiedersi solo una cosa: da dove vengono i soldi?”.
Per costruire il “complesso residenziale più prestigioso al mondo”, come l’ha definito Fayez al Sabea in un’intervista concessa al Foglio per iscritto, il finanziamento potrebbe giungere da due canali diversi. Il primo è quello dei mercati finanziari, perché nei piani c’è addirittura l’intenzione di quotare in Borsa la minuscola Ubako-I. Il secondo è il governo siriano: “Sharaa ha promesso un contributo sull’investimento del 60-70 per cento”, ci spiega Mario Zaccour, un imprenditore italo-libanese attivo nel settore degli ascensori e finito coinvolto nella faccenda. Suo figlio Edoardo Zaccour, coetaneo di Fayez, detiene l’1 per cento delle quote della società. “Ma io l’ho scoperto solo l’altro giorno. Secondo lei è possibile che due ventenni siano i veri titolari di un’azienda? E’ chiaro che Fayez risponde al padre Bassem, è solo un prestanome. Mio figlio ora vuole tirarsene fuori, ma non è semplice”. Zaccour però è a conoscenza del progetto da molti anni, sin dal 2010. “Io mi occupo solo della fornitura degli ascensori, più di 200. Bassem lo conosco da trent’anni. E’ una persona seria, vuole fare a Damasco quello che Berlusconi ha fatto con Milano 2”, dice. Ma quando gli chiediamo come mai sul sito della Ubako-I compaiano i nomi di due sconosciuti, tali Giovanni Rossi e Alessia Conti spacciati rispettivamente per ceo e capo delle operazioni ma che non risultano nel Registro delle imprese, Zaccour cade dalle nuvole: “Sembrano nomi inventati. Ma come è possibile? Ma cosa c… sta combinando Fayez?”. Dopo aver telefonato al ragazzo per chiedere ragguagli, l’imprenditore ci richiama allarmato e racconta che Fayez non ha voluto spiegargli perché sul sito siano riportati nomi apparentemente falsi dell’organigramma della società. “Comportarsi così con me, l’amico di suo padre. E dopo avere tirato dentro mio figlio nella società… Comincio a sospettare anche io adesso”.
Zaccour, oltre ad avere partecipato nel 2005, insieme al figlio, alla prima puntata della nota serie tv “Sos Tata”, ha alle spalle anche trascorsi meno spensierati, tra cui una condanna a tre anni e quattro mesi per bancarotta fraudolenta e una candidatura alle ultime elezioni europee, finita male, tra le file di Alternativa popolare, il partito di Stefano Bandecchi. Ci dice che, secondo lui, quella della Ubako “non è una truffa, la società esiste davvero. Al massimo è un progetto fatto male. Ho provato a spiegarlo a Bassem, ma lui ha insistito nell’aprire questa società in Italia. Ora vogliono chiedere anche un intervento alla Sace”. Il coinvolgimento del gruppo assicurativo-finanziario, partecipato al 100 per cento dal ministero dell’Economia, potrebbe dare credibilità al progetto. “Certo, aprire una società in Italia aiuta in termini di immagine e nel reperire crediti. Ma un progetto così grande è un’altra storia”.
Se Zaccour cade dalle nuvole, il giovane Fayez al Sabea è entusiasta e ci racconta che l’obiettivo è ambizioso: “Vogliamo creare una città residenziale a Damasco, composta da oltre 60 torri, distribuite tra 4 centri commerciali, 4 hotel e 52 torri residenziali con più di 20.000 appartamenti. Questo progetto non è semplicemente un complesso residenziale, ma una vera e propria opera d’arte vivente”. Propositi altisonanti e di portata enorme dal punto di vista economico, ma che sorprendentemente non hanno visto il coinvolgimento dell’ambasciata italiana a Damasco, rimasta spiazzata come tutti dall’annuncio dell’accordo fatto dalla presidenza siriana.
Secondo le informazioni fornite da Fayez, la filiale siriana della Ubako – che però, come abbiamo visto, risulta inesistente – aveva ricevuto dal vecchio regime di Bashar el Assad una certificazione (nella foto in basso) che le assegnava il giudizio di “eccellente” per diversi settori – edilizia, meccanica ed elettricità. Dice il giovane ceo che questo spiegherebbe da dove la Ubako-I intende reperire parte del denaro: “Uno dei vantaggi nel ricevere il grado di ‘eccellente’ è la possibilità di ottenere garanzie bancarie senza alcun limite dalla Banca industriale siriana, con un deposito cauzionale del solo 10 per cento e senza alcuna garanzia immobiliare”.
A ridimensionare le affermazioni di Fayez è sempre Mario Zaccour, il padre di Edoardo, socio di minoranza della Ubako-I: “Smentisco categoricamente che la banca siriana non chieda garanzie immobiliari, ma posso anche garantire che Bassem al Sabea i soldi ce li ha di suo, magari non sarà un miliardario, ma un milionario sì”. C’è poi un limite intrinseco nel fare investimenti in Siria in questo momento. Da poco tempo il paese è riuscito a riconnettersi al sistema di pagamenti internazionali Swift, ma mancano ancora i correspondent banking, cioè dei conti che permettono alle banche siriane di regolare i pagamenti con gli istituti di credito stranieri. “Le banche siriane oggi sono senza soldi, quindi è difficile credere che possano fare assegni in bianco a una società”, dice Maresca. “L’economia è gestita in questo momento da soggetti che agiscono in modo piuttosto informale”, spiega l’analista. Uno di questi è, come svelato da una recente inchiesta di Reuters, il Consiglio economico diretto dal fratello del presidente, Hazem al Sharaa, e affiancato da personaggi poco raccomandabili – si fanno chiamare “gli sceicchi” – che, senza seguire alcuna legge scritta e talvolta girando armati di pistola, sono incaricati dal presidente siriano di “ricostruire l’economia” del paese, in particolare recuperando crediti e ricchezze che appartengono agli ex membri del regime. “Io l’avevo detto a Bassem di lasciare perdere. Ma se alla fine l’accordo non si farà la responsabilità sarà del governo siriano che ha firmato il memorandum”, si sfoga Mario Zaccour. È in un contesto così volatile, fatto di leggi non scritte in un paese da ricostruire che si inserisce la vicenda della piccola società italiana che sogna di costruire grattacieli in una città ancora piena di macerie.

La telefonata da Berlino