
(foto Ap)
magazine
Il potere d'azzardo in America Latina, da Bukele a Bolsonaro
Rendersi eterni con riforme opache o finire in galera: questo il bivio per tanti leader in Sud America. Gli ultimi casi in El Salvador e Brasile
In America Latina stanno sbattendo dentro ex presidenti per impedire loro di diventare eterni? O sono i presidenti che cercano di diventare eterni per evitare di finire dentro? Il 31 luglio l’Assemblea Legislativa di El Salvador ha approvato con 57 voti su 60 una riforma della Costituzione che rimuove il divieto alla rielezione presidenziale, oltre a estendere il mandato da cinque a sei anni ed eliminare il ballottaggio. Il giorno dopo in Colombia Álvaro Uribe Vélez, già presidente dal 2002 al 2010, è stato condannato a 12 anni con il beneficio dei domiciliari per frode processuale, corruzione e corruzione in procedimento penale.
Due giorni dopo, anche l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro è finito ai domiciliari, su ordine del giudice del Supremo Tribunale Federale Alexandre de Moraes. Motivo: violazione di precedenti misure cautelari, con i divieti di usare i social, di uscire di casa dalle 19 di sera alle 6 del mattino durante i giorni feriali e tutto il giorno nei fine settimana e di conversare con ambasciatori, oltre a dover indossare una cavigliera elettronica. Ma il suo primogenito Flávio lo aveva messo in viva voce durante una manifestazione.
Il dipartimento di stato difende Bolsonaro: “Gli Stati Uniti condannano l’ordine di Moraes di imporre gli arresti domiciliari”
Imparentato col Rafael Uribe Uribe che fu prototipo dell’Aureliano Buendía di “Cent’anni di solitudine”, avvocato, Álvaro Uribe Vélez fu esponente del centrosinistra storico del Partito Liberale, con cui fu ministro, sindaco e governatore. Ma dopo il fallimento del processo di pace con le Farc tentato dal conservatore Andrés Pastrana, si mise alla testa di un movimento popolare di linea dura contro la guerriglia: indipendente da entrambi i grandi partiti tradizionali, e con cui fu plebiscitato due volte. Avi veneti, Jair Bolsonaro è stato invece una specie di Vannacci brasiliano, salvo l’essere stato cacciato dall’esercito da capitano, per un’attività da sindacalista militare in cui minacciava di mettere bombe. Quanto a Nayib Armando Bukele Ortez, è di origine palestinese, ma ha duramente condannato i fatti del 7 ottobre, e non ha mai fatto capire che fede abbia scelto tra quella islamica del padre e quella cattolica della madre. Primo capo di stato millennial della storia, “dittatore più cool del mondo” per propria autodefinizione, profeta delle criptovalute, è presidente da quando nel 2019 aveva 37 anni, dopo essere stato tra 2015 e 2018 sindaco della capitale.
Confermato nel 2024 con l’84,65 per cento dei voti (e il suo partito ha preso 54 seggi su 60), figlio di un noto imprenditore, era entrato in politica con l’ex guerriglia di sinistra del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (Fmln), ma poi si è messo in proprio con una piattaforma anti-corruzione e anti-delinquenza. E’ riuscito a dimezzare gli altissimi livelli di omicidi del paese, ma mandando in galera 75.000 persone, numero che dà al piccolo paese centroamericano il record mondiale di detenuti rispetto alla popolazione. Proprio le gigantesche carceri che ha costruito hanno suscitato l’interesse di Trump: come modello, e come posto in cui spedire gli immigrati deportati. Molti analisti ritengono che proprio il sentirsi con le spalle così coperte lo abbia spinto a fare la riforma per eternarsi al potere.
Ma anche Bolsonaro è pesantemente coperto da Trump. Dopo che de Moraes era stato sottoposto a sanzioni appunto in quanto suo “persecutore”, l’intero Brasile è stato colpito da una tariffa del 50 per cento apposta per punirlo di quanto stava accadendo all’ex presidente. In un post sui social, l’Ufficio per gli Affari dell’emisfero occidentale del Dipartimento di Stato americano ha scritto: “Il giudice, ora un violatore dei diritti umani sanzionato dagli Stati Uniti, continua a utilizzare le istituzioni brasiliane per mettere a tacere l’opposizione e minacciare la democrazia. Imporre ulteriori restrizioni alla capacità di Jair Bolsonaro di difendersi in pubblico non è un servizio pubblico. Lasciate parlare Bolsonaro! Gli Stati Uniti condannano l’ordine di Moraes di imporre gli arresti domiciliari a Bolsonaro e riterranno responsabili tutti coloro che favoriscano e siano complici di questa condotta”.
Non ci sono stati interventi altrettanto pesanti a favore di Uribe, ma Marco Rubio ha condannato la “strumentalizzazione” della giustizia, e il senatore repubblicano di origine colombiana Bernie Moreno ha evocato le sanzioni al Brasile.
Fernando Henrique Cardoso unico presidente del Brasile dopo la fine della dittatura militare a non aver avuto problemi giudiziari
Attenzione, però. I commenti dei figli di Bolsonaro – “siamo ufficialmente in una dittatura” del senatore Flávio e “il Brasile non è più una democrazia” del deputato Eduardo – echeggiano la protesta “la democrazia è morta”, fatta durante il dibattito sulla riforma costituzionale da Marcela Villatoro. Deputata per il partito Arena – Alleanza Repubblicana Nazionalista – nato come destra durissima. Addirittura sostenitrice degli squadroni della morte contro la guerriglia del Fronte Farabundo Martí, con cui però dopo gli accordi di pace si era trovata a gestire la democrazia in uno spirito abbastanza bipartisan. Talmente bipartisan che Bukele dopo avere iniziato col Fronte si è messo contro tutti e due considerandoli parte di una stessa “casta”, per dirla alla Grillo e Milei.
Peraltro, anche la lista degli ex presidenti finiti in galera è ampiamente trasversale. E’ di sinistra lo stesso Lula, che condannato il 12 luglio 2017 dal giudice Sérgio Moro in primo grado a nove anni e mezzo per aver preso tangenti da imprese edili, rimasto libero in attesa di un appello nel quale la pena è stata però aumentata a 12 anni, il 7 aprile 2018 si è consegnato alla Polizia Federale. Non potendosi dunque candidare, le elezioni le ha vinte agevolmente Bolsonaro, che si è scelto Moro come ministro. Ma i due hanno poi litigato, e c’è stato nella magistratura il più generale rivolgimento per cui l’8 novembre 2019 Lula è stato rilasciato, e il 7 marzo 2021 prosciolto: accampando sia la incompetenza territoriale e materiale del tribunale di Curitiba che la “parzialità” di Moro.
Pure ai domiciliari come Bolsonaro ma pure di sinistra come Lula è l’argentina Cristina Kirchner, presidente dal 2007 al 2015 e vicepresidente dal 2019 al 2023. Condannata nel 2022 per corruzione relativa ad appalti pubblici ma libera per l’immunità connessa alla sua carica, il mese scorso la Corte Suprema ha confermato la sua condanna con il beneficio dei domiciliari per i 72 anni di età, più l’interdizione a vita dai pubblici uffici. Nel suo caso è stato Lula a venirla a visitare a casa.
In Messico, Paraguay, Colombia e Honduras la rielezione è vietata, altrove è concessa in forme diverse. Le riforme ideate per aggirare le regole
Pure ai domiciliari e pure brasiliano ma di destra è invece Fernando Collor de Mello, primo presidente a vincere col voto popolare dalla fine dell’ultima dittatura militare del Paese. In carica dal 15 marzo 1990, si trovò al centro di uno scandalo di corruzione che lo portò il 29 dicembre 1992 alla destituzione, e poi a una proibizione ad esercitare cariche per otto anni. Tornato senatore dal 2007 al 2023, per una tangente è stato condannato a nove anni, confermati il 24 aprile da de Moraes. Arrestato il giorno dopo, dal primo maggio è passato ai domiciliari. Se si considera che la delfina di Lula Dilma Rousseff pur non essendo finita dentro è stata comunque destituita da un impeachment, in pratica l’unico a non avere problemi giudiziari tra i cinque presidenti del Brasile eletti con mandato popolare da quando è stato reintrodotto è stato Fernando Henrique Cardoso, in carica dal 1994 al 2002.
Ma in Perù è pure peggio. Dopo Fernando Belaunde Terry, tra 1980 e 1985 primo presidente del ritorno alla democrazia, cinque su sei mandatari eletti dal popolo sono finiti in carcere, e il sesto lo evitò suicidandosi mentre lo venivano ad arrestare: Alan García, di sinistra populista nel suo primo mandato 1985-90, e poi moderata tra 2006 e 2011. Morto lo scorso settembre Alberto Fujimori, che fu presidente dal 1990 al 2000: prima appoggiato dalla sinistra contro Mario Vargas Llosa, poi su posizioni di destra autoritaria. Esule dal 2000 al 2007, estradato, condannato a 25 anni nel 2009, infine indultato nel dicembre 2023. Stava nello stesso carcere dove sono oggi detenuti Alejandro Toledo: presidente centrista dal 2001 al 2006, condannato lo scorso ottobre a 20 anni e sei mesi per una tangente da 35 milioni di dollari dal colosso brasiliano delle costruzioni Odebrecht. Ollanta Humala: presidente di sinistra radicale poi svoltato sul moderato dal 2011 al 2016, condannato a aprile a 15 anni per riciclaggio di tre milioni di dollari della Odebrecht. Pedro Castillo: presidente di sinistra radicale dal luglio del 2021 al dicembre 2022, poi destituito e arrestato dopo aver tentato un golpe bianco contro il Congresso per il quale rischia una condanna a 23 anni. E’ stato invece ai domiciliari dal 2019 al 2022 il centrista Pedro Pablo Kuczynski, presidente dal 28 luglio 2016 e a sua volta destituito il 23 marzo 2018. Ora libero, ma in attesa di giudizio.
Sono poi in galera Antonio Saca: oriundo palestinese come Bukele, esponente dell’Arena, e presidente di El Salvador dal 2004 al 2009. Condannato nel 2018 a 10 anni per malversazione di oltre 300 milioni di fondi pubblici. E Jeanine Áñez: presidente a interim della Bolivia dal 12 novembre 2019 all’8 novembre 2020 dopo la destituzione di Evo Morales, e otto giorni dopo il passaggio di consegne a Luis Arce imprigionata con l’accusa di golpe. Ed è stato in galera Otto Pérez: ex-generale e esponente della destra, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2012 ma destituito il 3 settembre 2015, con l’accusa di aver ricevuto tangenti, e subito detenuto fino a un rilascio su cauzione nel gennaio 2024.
Altri tre hanno evitato il carcere scappando in esilio. Sta in Belgio, Paese della moglie, Rafael Correa: presidente chavista dell’Ecuador tra 2007 e 2017, condannato nel 2020 a otto anni per tangenti. Sono invece finiti in Nicaragua, ospiti di Daniel Ortega, Mauricio Funes: presidente di El Salvador tra 2009 e 2014 col Farabundo Martí, scappato nel 2016 dopo essere stato accusato di corruzione, condannato in contumacia il 29 maggio 2023 a 14 anni, e morto il 21 gennaio per quella che è stata definita “grave malattia”. Ricardo Martinelli: invece di destra, facoltoso imprenditore, presidente di Panama dal 2009 al 2014, e nel 2024 condannato a dieci anni per appropriazione indebita.
E poi, c’è Evo Morales. Leader indigeno e cocalero, presidente della Bolivia dal 2006 al 2019, alleato e partner del chavismo, che è addirittura latitante nel suo paese, con presidente proprio quel Luis Arce che fu suo abile ministro dell’Economia, e ideale ponte tra inquisiti e rielezionisti. Regione le cui radici ispaniche e spesso anche pre-colombiane erano monarchiche ma la cui indipendenza era avvenuta con rivoluzioni ispirate al modello repubblicano Usa, l’America Latina ha spesso trovato una quadra in presidenti-re. Emblematico Porfirio Díaz, presidente ininterrotto del Messico tra 1884, contro cui Francisco Madero fondò nel 1909 il partito Nacional Antirreeleccionista per concorrere alle elezioni dell’anno successivo, e il cui programma era che i presidenti devono fare un mandato e basta.
La logica era diversa da quella del limite di due mandati per tutti i parlamentari del grillismo: non una motivazione “anti-casta”, ma la constatazione che in un sistema presidenziale con una società civile debole e senza un sistema di fiducia come nei parlamentarismi un presidente eterno poteva diventare un dittatore. Madero perse, ma con accuse di brogli che innescarono quella Rivoluzione Messicana, che durò una decade. Ne emerse un sistema che per molto tempo è stato un monopartitismo di fatto, ma in cui la rielezione è restata un dogma. E la non rielezione, assoluta o relativa con alcune varianti, è comunque diventata in tutto il continente americano, anche in risposta alle rielezioni a catena di altri personaggi come i Somoza in Nicaragua, Trujillo in Repubblica Dominicana, i Duvalier ad Haiti o Stroessner in Paraguay.
A parte il Messico, la rielezione è vietata del tutto anche in Paraguay, appunto ricordando i 35 anni di presidenza di Alfredo Stroessner tra 1954 e 1989. E in Colombia: proprio Uribe Vélez nel 2004 introdusse la possibilità di un doppio mandato per cui lui poté restare alla presidenza fino al 2010, e poi Juan Manuel Santos fino al 2018. Ma nel 2015 il Congresso l’ha poi eliminata. E in Honduras: nel 2017 Juan Orlando Hernández annullò il divieto con una sentenza della Corte Suprema di Giustizia, ma nel 2022 Xiomara Castro lo ha ristabilito. E in Guatemala.
In Cile, Costa Rica, Haiti, Panama, Perù e Uruguay è vietata la ricandidatura immediata, ma si può correre di nuovo dopo un turno di sosta. In Bolivia, Ecuador e Repubblica Dominicana è permessa una ricandidatura, come negli Stati Uniti. La prassi inaugurata da Washington secondo cui nessun presidente avrebbe dovuto superare i due mandati fu infranta con i quattro di Franklin Delano Roosevelt, ma appunto dopo di lui nel 1951 fu adottato quel XXII emendamento che stabilisce il limite in modo formale. In Argentina e in Brasile c’è il tetto dei due mandati, ma ci si può ricandidare dopo una pausa, come ha appunto fatto Lula.
El Salvador rimuove il divieto alla rielezione presidenziale, oltre a estendere il mandato da cinque a sei anni. Bukele “dittatore più cool”
“Respingiamo la comparazione con regimi dittatoriali” ha detto il Dipartimento di Stato nell’esprimere appoggio alla riforma di Bukele. Difficile non pensare ai movimenti in corso nell’Universo Maga appunto per consentire una rielezione di Trump. Ma prima che a destra, e in stridente contraddizione rispetto a quel progressismo rivoluzionario latino-americano che aveva iniziato il XX secolo con la bandiera del non rielezionismo, è stato a sinistra che col Socialismo del XXI secolo sia Hugo Chávez che Evo Morales e Rafael Correa hanno invece promosso nuove Costituzioni con limite di due mandati ma a partire dalla loro approvazione, in modo da farne tre.
Correa si è poi accontentato di 10 anni, passando la mano al suo ex vice Lenin Moreno. Ma questi ha rotto con lui in modo così clamoroso da costringerlo all’esilio. Sia Chávez che Morales hanno invece cercato di modificare la Costituzione per permettere la rielezioni indefinita con referendum, che hanno perso. Il caudillo venezuelano ha però cavillato sul testo che consentiva un solo referendum costituzionale per legislatura, interpretandolo come se valesse per ognuno dei tre soggetti abilitati a chiederlo. Bocciata dunque la proposta presidenziale nel 2007, ha fatto un nuovo referendum nel 2009 su iniziativa dell’Assemblea Nazionale, facendo capire che se necessario ci avrebbe provato una terza volta su iniziativa popolare. Stavolta la riforma passò, e Chávez fu eletto per un quarto mandato. Ma ne fece solo 54 giorni, e poi morì, lasciando l’eredità della rielezione a Maduro. Evo Morales invece decise di ignorare il voto, facendo stabilire al Tribunale Costituzionale Plurinazionale che il divieto a candidarsi violava i suoi diritti umani. Ma le elezioni del 20 ottobre 2019 portarono a accuse di brogli e a una sommossa per cui Morales scappò. Poté tornare grazie alle nuove elezioni da cui un anno dopo uscì presidente Arce, che però non si prestò a fare da prestanome. Da cui la rottura per cui non solo è stato reiterato a Morales che non si può candidare, ma gli anche arrivato un ordine di arresto con accuse di stupro. E’ a piede libero perché i suoi seguaci lo proteggono, in un quadro di grave scontro col governo.
Ancor più che in Venezuela, in Nicaragua la rielezione indefinita reintrodotta nel 2014 è stata il punto di partenza per una involuzione autoritaria pesantissima. Un precedente inquietante.