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dualismo americano

Tecnologia e non solo. Cosa tira nell'America di Trump, dazi a parte

Stefano Cingolani

Gli Stati Uniti hanno un primato che durerà a lungo nelle alte tecnologie, mentre nella manifattura non sono competitivi. Il neoprotezionismo non chiuderà questo divario, ma è destinato ad allargarlo

Le Big Tech festeggiano annaffiate da un profluvio di profitti, la Ford si lamenta per colpa dei dazi. I due principali giornali economici, il Wall Street Journal e il Financial Times,  hanno messo in prima pagina (nelle edizioni online) le due notizie che fotografano la contraddizione di fondo dell’economia americana. Il neoprotezionismo non chiuderà il divario, anzi è destinato ad allargarlo. I dati della bilancia con l’estero rispecchiano questo dualismo strutturale: nelle alte tecnologie gli Stati Uniti hanno un primato che durerà a lungo, nella manifattura non sono competitivi, e non da adesso. Donald Trump ha firmato gli ordini esecutivi per imporre tariffe sui beni esportati a una sessantina di paesi con enormi divergenze dal 10 per cento del Regno Unito al 50 per cento del Brasile passando per il 15 per cento al Giappone e all’Unione senza eccezioni (né per il vino per la farmaceutica dunque?). Confusion de confusiones, ma anche se si arriva a una razionalizzazione dell’irrazionale, il quadro non cambia perché non fa i conti con la frattura tra vecchia e nuova industria.      

Microsoft ha raggiunto Nvidia toccando i quattromila miliardi di capitalizzazione, insieme ad Alphabet (Google) e Meta ha visto raddoppiare redditi e ricavi. Cloud e intelligenza artificiale hanno trainato la cavalcata e gli investitori di Wall Street apparecchiano i tavoli per gli ingenti investimenti annunciati: Google, Microsoft, Meta e Amazon spenderanno 350 miliardi di dollari quest’anno soprattutto in data center e 400 miliardi nel 2026 in infrastrutture IA. Resta un po’ attardata Apple che ancora deve sviluppare una strategia convincente sull’intelligenza artificiale, ma in compenso è ripresa la crescita degli smartphone. La fame di capitali è enorme, circa 1.500 miliardi di dollari secondo Morgan Stanley, c’è da fare una bella scorpacciata. Big Money potrà vivere in simbiosi con Big Tech e la strana coppia continuerà a tirare lasciando sempre più indietro l’automotive un settore maturo in Europa e in Giappone, in espansione in Cina soprattutto con le aziende nazionali, e in affanno negli Stati Uniti. La Ford che vende in patria circa l’80 per cento delle proprie vetture, al contrario di quel che fanno credere Trump & Co. non sarà avvantaggiata dai dazi (sono costati ben 800 milioni di dollari nel secondo trimestre) anche perché pesano fino al 50 per cento su acciaio e alluminio, due componenti essenziali delle quali gli Stati Uniti non sono autosufficienti. In più c’è la mazzata sul Messico. Trump ha concesso altri tre mesi, ma non molla, mentre il Canada balla ancora. La Ford non è l’unica delle Big Three a soffrire: la General Motors ha messo in conto un costo di un miliardo e cento milioni di dollari tra aprile giugno, Stellantis 350 milioni. Quanto peseranno le tariffe nella seconda metà dell’anno, quando saranno generalizzate? Chi si è consolato perché poteva andare peggio, deve solo aspettare che il ciclo protezionistico si compia. Sindacati e industriali a Detroit rumoreggiano, fra poco toccherà anche ai consumatori: un suv Ford Escape costerà cinquemila dollari più del concorrente giapponese RAV4, nonostante i dazi del 15 per cento sulle auto nipponiche. Come dire spararsi sugli alluci.     

Il divario non si spiega solo con le tariffe, ma con il progressivo declino della manifattura made in Usa. E la responsabilità non cade sui mercati aperti. Nel 1929 prima del grande crac l’Europa occidentale esportava il 14,5 per cento del suo prodotto lordo, gli Usa solo il 5 per cento. Nel 1992, quando comincia l’ultima globalizzazione, le quote erano rispettivamente del 21,7 e del 7,5 per cento. L’Europa e la Cina hanno fatto il pieno nell’export di beni, gli Usa nella finanza e nei servizi. La manifattura americana, invece, è crollata: se nel 1950 occupava ancora il 30 per cento della forza lavoro totale, adesso è a meno del 10 per cento. Uno studio della McKinsey ridimensiona in parte la caduta perché comunque attira investimenti in capitale in ricerca. Ma il gap resta. Il punto di svolta va collocato negli anni ’80 con il Big bang finanziario e l’irrompere dell’economia digitale, dai personal computer a internet. Nel frattempo alla Casa Bianca si sono alternati repubblicani e democratici, protezionisti e globalisti, ma la tendenza non è cambiata. Trump e i Maga se la prendono con Joe Biden che paradossalmente ha perfino rafforzato il mitico Buy American Act introdotto nel 1933 dal presidente Hoover e ha dilatato il deficit pubblico per sostenere l’industria nazionale, dall’energia all’automobile. Gli Stati Uniti, insomma, debbono credere nel cambiamento che essi stessi hanno generato e adattarsi.

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