l'attacco contro l'ucraina

Putin ignora il nuovo ultimatum di Trump

Micol Flammini

Il Cremlino dice "di aver preso nota", risponde al presidente americano colpendo un carcere nella regione di Zaporizhzhia a tre anni esatti dall'attacco al campo di detenzione a Olenivka 

Donald Trump può parlare, minacciare, lanciare ultimatum, ma la Russia rimane determinata a portare avanti la sua aggressione contro l’Ucraina. Il presidente americano ha ridotto il tempo concesso a Vladimir Putin per acconsentire a un cessate il fuoco da cinquanta giorni, come stabilito la scorsa settimana durante un incontro con il segretario generale della Nato Mark Rutte, a dieci o dodici giorni, lo stesso Trump è parso indeciso. Il Cremlino non ha riservato molti commenti alle dichiarazioni del presidente americano, che ha minacciato forti sanzioni nel caso in cui Mosca non sceglierà la strada del dialogo e del negoziato serio. Il copione russo si ripete all’infinito, il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha detto che per i russi il dialogo è sempre al primo posto, il problema sono gli ucraini che hanno fatto di tutto per non dialogare. 

E sempre come da copione, lunedì notte, dopo le minacce di Trump, l’esercito russo ha lanciato un forte attacco con missili e droni contro l’Ucraina, colpendo una prigione nella regione di Zaporizhzhia, uccidendo almeno sedici detenuti e ferendone oltre trenta. Ogni notte parte un attacco russo contro l’Ucraina, ma sembra sempre che dopo le dichiarazioni di Trump o dopo un incontro per negoziare uno scambio di prigionieri, i russi prendano di mira le città ucraine con maggior potenza, per dimostrare che nulla cambierà fino a quando non sarà Mosca a decidere di fermarsi e Mosca si fermerà quando si sentirà sazia. Sul senso di sazietà ci sono poche conferme, ma al Cremlino piacciono molto gli atti dimostrativi e, quando il missile ha colpito la prigione nella regione di Zaporizhzia, la memoria è tornata a tre anni fa, a uno degli atti più feroci dell’esercito russo che nella notte tra il 28 e il 29 luglio bombardò il campo di detenzione di Olenivka, nella parte della regione di Donetsk occupata, dove erano tenuti prigionieri i soldati ucraini. Morirono in 53. L’attacco non fu un errore, Mosca voleva colpire il campo di detenzione e lo fece, senza badare alla condizione di prigionieri di guerra: giustiziò i soldati dell’Ucraina a cui avrebbe dovuto garantire la sicurezza. Kyiv è pronta a tutto, sa che non ci sono limiti che Mosca si ponga e ha provato sollievo nel notare che anche il presidente americano sta iniziando a notare, a convincersi che Mosca non fa accordi, ha un piano di guerra e intende portarlo avanti. 

Non è detto che le minacce di Trump possano trasformarsi in azioni concrete, parte della sua Amministrazione continua a sostenere che sia possibile dialogare con Putin. Da un momento all’altro, basta un cenno del capo del Cremlino, e la situazione potrebbe invertirsi di nuovo a sfavore dell’Ucraina. Per ora Putin non ha intenzione di fare cenni capaci di recuperare le grazie di Trump e anzi, è stato lui stesso a indurre il capo della Casa Bianca a cambiare idea con gli attacchi continui  contro le città ucraine. A quel punto Trump si è sentito preso in giro, la questione è diventata personale: “Bisogna sempre ricordare da dove eravamo partiti – dice al Foglio Oleksandr Kraev, esperto ucraino di relazioni con gli Stati Uniti – Per l’Ucraina è uno sviluppo positivo, ma non vuol dire che Trump sia diventato più anti Putin o più filoucraino. Non sono categorie che lo interessano, quello che davvero lo ha smosso è il rischio di vedere la sua reputazione danneggiata, la sua immagine internazionale svilita. Per questo ha iniziato a studiare dove fosse il problema e si è accorto che l’ostacolo all’accordo non era l’Ucraina ma era Vladimir Putin”. Il Cremlino non bada a ultimatum, non si avvicina alle posizioni di Trump, vuole ottenere i suoi obiettivi e completare l’occupazione delle regioni che controlla  parzialmente, in particolare l’oblast di Donetsk, dove porta avanti un’offensiva brutale e dispendiosa e  avanza con grandi perdite. Putin aveva detto a Trump di voler completare l’occupazione della regione, il capo della Casa Bianca aveva ascoltato le intenzioni del suo omologo e poi ha scelto di accettare il piano per rifornire l’Ucraina attraverso le armi americane comprate dagli europei. La triangolazione è complessa, ma per gli ucraini è anche una rassicurazione: “Trump lo vede come un affare e difficilmente fermerà un affare. Il fatto che ci siano gli europei a gestire il rifornimento attutisce l’imprevedibilità di Trump. Se cambia idea su Putin, il piano resta: prima di essere un politico, Trump è un uomo d’affari e questo piano, per lui, è davvero un buon affare anche se la cifra di dieci miliardi non sembra alta. Con Trump, però,  è sempre bene non concentrarsi sui numeri, non li cita basandosi su fatti concreti”, dice Kraev. Sia Kyiv e sia Mosca si confrontano con l’imprevedibilità del presidente americano. Per i russi è la garanzia della sua inconsistenza. Per gli ucraini, invece, rappresenta uno spettro da affrontare  ogni giorno. In questa fase,  che dura da molto, Kyiv sta imparando a navigare nell’imprevedibilità trumpiana. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)