I dazi di Trump fanno male all'Europa, ma soprattutto agli Stati Uniti

Luciano Capone

Donald non è Taco: sta vincendo la sua guerra commerciale. Impone maggiori tariffe a tutti, ma il costo più pesante rischia di pagarlo l'economia americana

La strategia sui dazi di Donald Trump fatta di fughe in avanti, sospensioni, retromarce e nuove avanzate sta lentamente prendendo forma. Non che si tratti di una politica commerciale coerente, ma la serie di accordi delle ultime settimane – a meno di non impossibili ripensamenti – sta smentendo alcune convinzioni. A un certo punto, il procedere confuso e altalenante era costato a Trump la definizione di “Taco” (Trump Always Chickens Out, che sta per Trump si tira sempre indietro). I segnali negativi di Wall Street, le ritorsioni colpo su colpo della Cina, la reazione fiera di paesi come Messico e Canada, i ricorsi giudiziari interni, lo scontro con la Federal Reserve e qualche critica anche all’interno del Partito repubblicano sembravano costringere il presidente degli Stati Uniti a una sostanziale ritirata, o comunque a un ridimensionamento della sua politica protezionista. Ma non è così. 

Certo, i nuovi dazi non sono ai livelli proibitivi comunicati unilateralmente nel Liberation day ma, se si considera quegli annunci come una strategia negoziale, alla fine il panorama del commercio internazionale presenta dazi che – se appaiono quasi ragionevoli rispetto al Liberation day – erano del tutto inimmaginabili appena un anno fa. E questo a prescindere dalla strategia adottata dalle varie controparti. Ci sono paesi che, al margine, hanno negoziato meglio o peggio, ma il risultato non è cambiato poi molto.

C’è chi ha reagito con forti contromisure come la Cina, chi ha provato a usare il bastone dei controdazi e la carota del dialogo come il Canada, chi si è scontrato politicamente come Colombia, Brasile e in parte Messico, chi invece ha cercato immediatamente un accordo come Regno Unito, Vietnam, Giappone e Unione europea: alla fine – in un modo o nell’altro, e quasi indipendentemente dalla strategia adottata – i dazi saranno più alti per tutti. Se prima il dazio medio effettivo degli Stati Uniti era attorno al 2%, alla fine sarà del 15-20%, al livello di paesi come Iran e Venezuela.

Su questo ormai c’è chiarezza: Trump non è Taco, non si tira indietro. I dazi gli piacciono, li usa come strumento per risolvere qualsiasi controversia economica o politica: squilibri commerciali (Europa, Cina, Vietnam), traffico di droga (Canada), immigrazione (Messico), protezione di alleati politici (Bolsonaro in Brasile). E per giunta sono per la Casa Bianca l’unica fonte di entrate in grado di coprire, anche se solo parzialmente, i tagli fiscali del “One Big Beautiful Bill” che aumenta ulteriormente il debito.

È in questo contesto che va giudicato il deludente accordo dell’Unione Europea, che accetta un dazio del 15% in cambio di nulla. Si poteva chiedere di più a Ursula von der Leyen? La strutturale fragilità politica di un blocco di 27 paesi, con interessi molto diversi, rende impossibile trovare l’unità in azioni più risolute. Non è un caso che i paesi che chiedevano una reazione più forte, come Francia e Spagna, sono meno esposti all’export verso gli Stati Uniti rispetto a paesi come la Germania e l’Italia i cui governi, Merz e Meloni, non a caso hanno chiesto un approccio soft. C’è da dubitare che la linea di Macron e Sánchez avrebbe prodotto un accordo migliore. Spagna e Francia sono in esercizio provvisorio perché i due governi, entrambi fragili, non riescono a negoziare tagli e tasse con i partiti in Parlamento: è difficile credere che sarebbero riusciti a strappare chissà quali concessioni a Trump.

In ogni caso, la linea dura dell’Europa – ad esempio un simmetrico incremento dei dazi – avrebbe comportato un ulteriore danno inflitto a famiglie e imprese europee, perché i dazi fanno male soprattutto a chi li impone. Se Trump sta vincendo la sua guerra commerciale, non significa che la stiano vincendo anche gli Stati Uniti. Secondo think tank europei come il Kiel Institute i dazi di Trump dovrebbero costare all’Ue in termini di crescita circa -0,1% del pil, mentre secondo l’americana Tax Foundation i dazi di Trump dovrebbero costare agli Stati Uniti circa -0,8% del pil.

Von der Leyen ha scelto di accettare un male minore adesso in cambio di una revisione quando Trump non ci sarà più. Il problema è che, in assenza di risposte simmetriche, sarà difficile per il prossimo presidente degli Stati Uniti, chiunque egli sia, ridurre unilateralmente i dazi accettati dall’Europa. Ma rispondere con controdazi non era politicamente semplice né, soprattutto, privo di costi economici.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali