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la storia
Tutti i “no” di arabi e palestinesi a uno stato palestinese
Piani internazionali, colloqui, risoluzioni Onu, e guerre. Una lunga storia di rifiuti dagli anni del Mandato britannico ai giorni nostri
Da tempo si parla della possibilità di riconoscere uno stato di Palestina, soprattutto ne parlano europei, americani, persino israeliani. Negli anni 20-30 (periodo del Mandato britannico) i leader arabi hanno però sempre rifiutato ipotesi di partizione. D’altra parte non vi era una specifica coscienza nazionale: come si evince dai report degli ufficiali inglesi, i musulmani presenti sul territorio parlavano ventitré lingue diverse. Pare dunque ovvio che non si fosse davanti a una popolazione indigena e millenaria: la differenza linguistica è chiaro segno di massiccia immigrazione. Molti egiziani, ad esempio, erano fuggiti dalla leva obbligatoria e si erano stabiliti in quella porzione dell’Impero ottomano, che poi diventerà la Palestina mandataria, dopo il 1834. I Bosniaci vi vennero portati per rinforzare l’esercito ottomano dopo l’annessione della Bosnia nel 1878. I Circassi si stabilirono in quell’area tra il 1876 e il 1878, dopo essere stati espulsi dal Caucaso dall’Impero russo. Infine va ricordato che l’Impero ottomano aveva trasferito nell’area gruppi curdi all’inizio del XX secolo per rafforzare il controllo su zone periferiche. Si trattava dunque di un’immigrazione ben diversa da quella ebraica: i musulmani insediatisi in Terra d’Israele non avevano alcun legame con quel territorio. Ovvio che non rivendicassero alcuna specificità identitaria. Pertanto, nonostante la Gran Bretagna avesse già fatto nascere, nel 1921, lo stato arabo-palestinese di Transgiordania sul 78 per cento del territorio del Mandato, i leader arabi – che percepivano quelle terre come la Grande Siria – si opposero al Piano Peel (1937) che avrebbe fatto nascere un ulteriore stato palestinese, riservando allo stato ebraico solo il 4 per cento del territorio originario del Mandato.
Agli arabi non interessavano uno o due stati palestinesi, semplicemente non volevano uno stato ebraico, per piccolo che fosse. Motivo per cui venne rifiutata anche la partizione proposta dalla Risoluzione 181 dell’Onu del 1947. Così, invece che procedere alla creazione di uno stato palestinese al fianco di uno stato ebraico, gli arabi mossero guerra, finendo con il conquistare proprio parte dei territori su cui sarebbe dovuto sorgere lo stato palestinese. Gli egiziani occuparono la Striscia di Gaza e la Giordania occupò e annesse l’intera Cisgiordania, oltre a Gerusalemme Est e alla Città Vecchia. Un muro, costruito dai giordani, impediva l’accesso degli ebrei alle sinagoghe, al Kotel (Muro del Pianto), al cimitero e all’Università Ebraica. Gli abitanti ebrei di Gerusalemme Est e del quartiere ebraico della Città vecchia vennero cacciati dalle loro case. Questa situazione perdurò sino al 1967: in 18 anni nessun leader arabo pensò di far nascere lo stato palestinese nei territori che erano già in mano islamica. Con la Guerra dei sei giorni (1967) i confini mutarono, ma nonostante la pesante sconfitta subita, gli stati arabi respinsero anche la Risoluzione 242, ritenendo che la sua accettazione implicasse il riconoscimento dell’esistenza d’Israele. Una posizione formalizzata dai famigerati “tre no” che Arafat espresse a Khartoum: no al riconoscimento d’Israele, no alla pace con Israele, no ai negoziati con Israele.
Un altro piano, rifiutato dagli stati arabi e da Arafat, venne proposto nel 1972 da re Hussein di Giordania. Il monarca, desideroso di offrire una soluzione al conflitto israelo-palestinese, aveva proposto la creazione di una Federazione araba di Palestina e Giordania. Il piano prevedeva la costituzione di una federazione composta da due province autonome: la Cisgiordania e la Transgiordania. Le due province avrebbero avuto autonomia interna, pur condividendo lo stesso sovrano e una capitale comune (Amman). L’Olp rifiutò subito, come anche la Lega araba. Anche Israele, in questo caso, non si ritenne d’accordo in quanto, dal 1967, la Cisgiordania e l’intera Gerusalemme erano amministrate da Israele e nel piano non si faceva alcun riferimento a una soluzione di pace e ad una strategia condivisa. Ma se risulta comprensibile il rifiuto d’Israele, certo è meno comprensibile quello palestinese.
Nel 1978 fu il piano Begin-Sadat a venire respinto dall’Olp e da quasi tutti gli altri stati arabi, al di fuori dell’Egitto. Il progetto, noto a tutti (o quasi) come la sottoscrizione dell’accordo di pace tra Egitto e Israele, prevedeva anche una soluzione per l’autonomia dei palestinesi nei territori di Gaza e Cisgiordania. L’Egitto, accusato di tradimento, venne espulso dalla Lega araba e il presidente Sadat nel 1981 fu assassinato, nonostante con la firma della pace avesse ottenuto la restituzione dell’intera penisola del Sinai (persa nel 1967). Una restituzione non da poco, visto che l’aera includeva anche tre importanti giacimenti petroliferi. Di fatto l’esempio egiziano a nulla valse: piuttosto che scegliere una via negoziale e diplomatica per tentare di addivenire a una soluzione per i palestinesi, gli arabi scelsero la strada della chiusura.
Una strada percorsa e ripercorsa svariate volte. Unica altra eccezione la Giordania. Infatti nel 1994 la Giordania scelse di siglare la pace con Israele: Re Hussein e Yitzhak Rabin firmano il riconoscimento reciproco, la fine dello stato di guerra e la cooperazione in vari ambiti (tra cui quello idrico). Arafat – che pure “ufficialmente” aveva firmato gli Accordi di Oslo – si mostrò preoccupato; Siria e Iraq condannarono la normalizzazione. Giungiamo così al 2000-2001 e al cosiddetto piano Clinton. L’obiettivo era quello di discutere, con la mediazione appunto del presidente Clinton, questioni relative ai confini tra il futuro stato palestinese e Israele, agli insediamenti, a Gerusalemme, al rifornimento idrico e ai profughi. Il primo ministro israeliano Barak aveva proposto all’Autorità palestinese la cessione del 97 per cento del territorio cisgiordano, più un 3 per cento di territorio israeliano confinante e abitato da popolazione araba. Aveva accettato di assorbire diverse migliaia di profughi, come parte di un progetto di riunificazione famigliare e di partecipare al pagamento di compensi per le proprietà perdute dai profughi stessi: proposta che nessuno stato arabo ha mai fatto relativamente ai profughi ebrei cacciati e derubati di tutto dai paesi arabi. Inoltre Barak, pur di addivenire a una situazione di pace definitiva e conoscendo le aspettative palestinesi su Gerusalemme, aveva offerto ad Arafat anche la sovranità sulla maggior parte dei quartieri arabi della zona orientale di Gerusalemme, compresi i quartieri cristiano e arabo della Città vecchia. Tuttavia i colloqui non diedero i risultati sperati. Perché? Semplicemente perché Arafat per l’ennesima volta oppose il suo rifiuto e incominciò una nuova ondata di violenza, covata già da diverso tempo. Alle proposte di pace i leader palestinesi hanno sempre risposto di no. La stessa cosa accadde nel 2008, quando il piano di pace di Ehud Olmert venne rigettato Mahmoud Abbas, che nel frattempo era subentrato ad Arafat. Identica ingloriosa fine, nel 2020, anche per il progetto di pace pensato dal presidente Trump: Abbas neppure si degnò di rispondere.
Che cosa si crede di poter ottenere, oggi, in una situazione radicalmente più difficile, dalla proposta di riconoscimento dello stato di Palestina? Come faranno i leader occidentali a imporre ai palestinesi uno stato che, per lo meno sulla carta, dovrebbe esistere al fianco d’Israele? Con quale dei due governi palestinesi si intratterranno relazioni diplomatiche: Anp o Hamas? Al momento nei Territori gestiti dai due governi palestinesi non ci sono elezioni dal 2006. Entro quali confini si estenderà lo stato che verrà riconosciuto? Dal fiume al mare per fare un regalo ad Hamas e a qualche campeggiatore entro i cortili delle nostre Università? In questo caso si tratterebbe di uno stato di Palestina al posto dello stato d’Israele. E i cittadini israeliani? Magari quelli arabi verranno a godere di tutti i diritti (se accetteranno la sha’ria, comprensiva di velo e abolizione di tendenze Lgbt), ma gli ebrei? Macron e chiunque abbia deciso di seguirlo ha già previsto la possibile reintroduzione della dhimma?


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