Ansa

il racconto

La madre di Halabja, la memoria di tutte e la rete delle donne siriane 

Dida Faridoon

La transizione dalla famiglia Assad all'ascesa al potere di Hay’at Tahrir al-Sham non ha rappresentato una liberazione, ma incertezza e una nuova lotta. Al  centro di questo movimento c’è Makia, che preferisce farsi chiamare “la madre di Halabja”, in onore della sua unica figlia uccisa nel 2012 in un attentato di al Qaida a Qamishli

Dopo oltre un decennio di  guerra civile, la condizione delle donne siriane resta  preoccupante, soprattutto se paragonata ad altre transizioni politiche nella regione. L’8 dicembre del 2024 è iniziato un nuovo capitolo politico in Siria: si è concluso il dominio della famiglia Assad durato 54 anni. La lunga e violenta lotta per la liberazione, iniziata nel nord del paese, ha portato all’ascesa al potere di Hay’at Tahrir al-Sham (Hts),  un tempo affiliato ad al Qaida.

Le prime dichiarazioni dell’Hts hanno gettato un’ombra sulle libertà civili: per le donne siriane, la transizione non ha rappresentato una liberazione, ma incertezza e una nuova lotta. Al  centro di questo movimento c’è Makia, che preferisce farsi chiamare “la madre di Halabja”, in onore della sua unica figlia, uccisa nel 2012 in un attentato di al Qaida a Qamishli. La ragazza si chiamava così in ricordo dell’attacco chimico del regime iracheno del 1988 sulla città curda di Halabja, in Iraq, dove morirono migliaia di persone. Quel nome oggi simboleggia una lotta che attraversa confini e generazioni contro le eredità della violenza e dell’estremismo. “La storia della mia Halabja non è poi così diversa da quella del 2012,  sono solo cambiati i nomi dei carnefici”,  racconta Makia: “Ero a casa, stavo cucinando il suo piatto preferito, la molokhia. Da quando era incinta, me la chiedeva spesso. Nel pomeriggio dell’11 marzo 2012, ricevetti una telefonata da un vicino: ‘C’è stata un’esplosione alla sede della protezione civile a Qamishli. Dieci morti. La tua Halabja è tra loro’. Mi è crollata la terra sotto i piedi”. La storia di Makia non è solo una storia di dolore, ma di risveglio politico. “Prima, bastava un bicchiere d’acqua per rendermi felice”,  dice, “ora vivo solo per essere la voce forte di tutte le madri e le donne che hanno perso una parte di sé: un figlio, la dignità, o la propria terra”. 

 

Ho incontrato Makia assieme ad altre quattro attiviste del Consiglio delle donne siriane a Qamishli, nel loro centro fondato nel 2017 con l’obiettivo di mettere fine alla violenza, allo sfollamento, allo sfruttamento, agli stupri, agli omicidi e alla sparizione delle donne siriane. Stava andando per la terza volta a Damasco assieme all’amica Muhna. Al primo forum, dopo la caduta del regime di Assad, avevano partecipato circa 150 donne, oggi se ne aspettano più di 300. Ognuna ha condiviso la propria storia, ma quella della madre di Halabja mi ha colpito più di tutte. A 60 anni, continua a lottare per la giustizia dopo la devastante perdita della figlia. La sua storia è un ricordo struggente e potente di come le ideologie islamiste radicali abbiano effetti duraturi, non solo sulle singole vite, ma sulle comunità intere. Dopo la morte della figlia, Makia si è unita al gruppo “Stella dei diritti delle donne” a Qamishli. Con il tempo ha iniziato a incontrare donne provenienti da zone di guerra e comunità emarginate, come quelle nel campo di al Hol dopo la sconfitta dello Stato islamico. “Nel regime baathista, la legge della sharia definiva lo status giuridico delle donne: in tribunale due donne valgono come un uomo, una donna yazida doveva convertirsi all’islam per sposare un musulmano. Al Forum delle donne a Damasco, dove abbiamo incontrato donne arabe, curde, yazide, assire e circasse, abbiamo compreso quanto fossimo state scollegate tra noi. Fin dall’inizio della crisi, le donne in Siria hanno sofferto immensamente, pagando il prezzo più alto della guerra, essendo le più emarginate, escluse dalla partecipazione alla risoluzione politica del conflitto”. Quest’anno il  Forum delle donne a Damasco è particolarmente importante, offre un’opportunità storica per influenzare la stesura della nuova Costituzione. “Stiamo lavorando per formulare una visione femminista del futuro”, dice Makia, “che garantisca i diritti delle donne e la loro partecipazione alla vita politica, sociale ed economica della Siria”.  

 

Ho seguito Makia e Muhna nel loro terzo viaggio a Damasco per partecipare al forum. La sveglia suona alle 5 del mattino, Makia prepara i vestiti, il caffè nero forte, accende una sigaretta e chiama Muhna per incontrarsi ad Antaria, punto di partenza da Qamishli. Prova a contrattare sul prezzo del biglietto con l’autista del bus, pur sapendo che il prezzo non cambierà – fa parte della cultura. Pagano entrambe 158 lire, circa 17 dollari americani. “Nassam Alayna El Hawa”, la brezza soffiò su di noi, una delle canzoni di Fairuz, la voce più potente e artistica del Libano e del medio oriente, inizia a suonare. La canzone del mattino. Arriviamo al primo dei quattro o cinque posti di blocco che ci separano dalla capitale. Ci alziamo, prendiamo un tè, dico: “Ti rendi conto che un giorno potremo viaggiare da Qamishli a Sham senza problemi? ”. Muhna risponde: “Spero solo di poter tornare un giorno ad Ain Issa in sicurezza”. Io sono abituata a chiamarla con il nome curdo (Sari-Kani), ma essendo araba, la chiama così – e va bene così.  Da irachena, riconosco il dolore di Makia: l’ho visto e l’ho vissuto nel post 2003 in Iraq, nella sofferenza delle minoranze e delle donne. La sua storia è la memoria collettiva della nostra regione, la nostra lotta condivisa. Il lavoro che ci attende è immenso, ma donne siriane come Makia stanno dando forma a un nuovo futuro, dove giustizia e uguaglianza non siano solo aspirazioni, ma diritti.

Di più su questi argomenti: