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libero da ogni guinzaglio
I dieci mesi di Stephen Colbert
Il “Late Show” chiuderà, ma non subito, e la sua star ha già dato un assaggio di come userà questo tempo
Il grande predecessore, David Letterman, una volta pensionatosi dal “Late Show”, non è stato più lo stesso. Per carità, contratti miliardari, interviste ultra-prestigiose per Netflix, la parte del venerabile sapiente, perfino una folta barba nuova. Di fatto però svaniva quel fatale appuntamento serale con gli americani, con le palpebre degli spettatori calanti ma l’host carico a pallettoni, coi suoi ospiti da sfottere cordialmente, le trovate demenziali, i giochini-riempitivo e soprattutto i 3, 4 minuti da comedian in apertura, quando è il momento dei purosangue, quelli che mitragliano battute sconvenienti sui potenti e sull’assoluta attualità, accompagnate dai colpi di grancassa del batterista. Il 10 aprile 2014 Stephen Colbert ha raccolto quella terrificante eredità (primo ospite in assoluto: George Clooney), esponendo presto una classe e un aplomb che ha stregato perfino i lettermaniani oltranzisti. Subito Colbert ha messo in chiaro d’avere un tocco e uno stile suo, e che su quello avrebbe edificato la propria versione del “Late Show”, destinata a durare per i successivi dodici anni. Sì, perché com’è stato ufficialmente comunicato qualche giorno fa, la Cbs ha deciso che a maggio prossimo lo spettacolo chiuderà i battenti, e che non sarà Colbert a venire sostituito, ma l’intera baracca a venire smantellata. Uno choc per lo show business d’oltreoceano e per le abitudini del suo pubblico. Tanto più perché presto le motivazioni “squisitamente finanziarie” addotte da Paramount, casa-madre della Cbs, hanno cominciato a fare acqua.
Troppe coincidenze, a cominciare da quella col risarcimento da 16 milioni di dollari appena benignamente accordato a Donald Trump per i supposti danni subiti in periodo elettorale da un montaggio “ad arte” di un’intervista con Kamala Harris a “60 Minutes”. Antefatto di uno scenario più complesso, incentrato sull’imminente fusione da 8 miliardi di dollari tra la Paramount e Skydance Media, operazione per la quale è indispensabile un benestare governativo, in pratica un assenso trumpiano. Coincidenze che portano dritto a pensare che la testa di Stephen Colbert, perenne spina nel fianco satirica del presidente, sia entrata a far parte del pacchetto di accordi. Sacrificio propiziatorio che si spinge ben oltre l’ormai conclamata crisi del genere “late show”, testimoniata dal crollo del 50 per cento degli introiti pubblicitari in sette anni: perché è un fatto che questa categoria d’intrattenimento perda ormai irrimediabilmente pubblico (quello più giovane), provocando esempio un rosso di bilancio da 40 milioni di dollari l’anno per lo show di Colbert, sebbene questo continui a occupare saldamente il primo posto nella classifica del rating.
Colbert, del resto, ha fatto del suo meglio per tenere la propria ora quotidiana d’intrattenimento tv al passo coi tempi. Il problema è che in tempi di Maga il gioco si è fatto così pesante, che anche la sua comicità erudita fatica a scalfire la metamorfosi di una nazione oggi votata alla sfrontatezza. E tutto ciò nonostante Colbert dal primo giorno non abbia avuto peli sulla lingua e nei suoi assoli non abbia mai nascosto la propria principale convinzione: Trump è una gigantesca bufala, pronto a trasformare un grande paese in una barzelletta.
Cresciuto come autore satirico di successo per Fox News, Colbert ha saputo evolversi nello spiritoso e autorevole fine dicitore della tarda notte televisiva, trasferendo nello show una personalità da americano di solidi princìpi, sostenitore della decenza, nemico delle ipocrisie, fedele al progetto originale della nazione, tornato a essere cattolico praticante e cristologico, sulla base della personale riscoperta della fede della propria formazione. Un uomo con una visione, che con il suo “Late Show” ha puntato dritto a uno scopo: usare la comicità per commentare liberamente quelle notizie sulle quali ormai il giornalismo americano esitava, tanto più da quando figure come Trump hanno preso a mettere in discussione i suoi diritti.
Così si è arrivati allo scontro finale e alla sua interpretazione del David condannato all’esilio da Donald/Golia. Il tutto però con un insidioso risvolto per il presidente: Colbert ha ancora dieci mesi di programmazione, durante i quali sarà sua precisa cura procurargli i massimi danni possibili. Ha cominciato subito. La prima battuta del suo stand up, all’indomani della notizia della chiusura del programma, è smagliante: “Direi che la cancel culture si è spinta un po’ troppo avanti”, ha ironizzato, dal momento che anche lui è stato “cancellato”. Per fortuna, ha sussurrato con finta commozione, può ringraziare tutti coloro che nel frattempo gli hanno fatto pervenire offerte di lavoro di ogni tipo, part time incluso. Con la convinzione che chi ha preso quella decisione abbia “commesso un errore: hanno chiuso il mio show, ma mi hanno lasciato vivo”. Perciò adesso si combatte a mani nude, perché “posso finalmente dire ciò che penso di Donald Trump. A cominciare dal fatto che non è capace di fare il presidente”. Colbert ha poi tirato in ballo il fatto che due giorni prima della cancellazione aveva pronunciato un monologo velenoso verso il presidente: “Alla Cbs non ci hanno pensato un momento. Bum: mi hanno tagliato. Peggio del fascismo. Lo chiamerei sfascismo”. E che ne sarà del glorioso Ed Sullivan Theatre che l’ha ospitato? “Diventerà un deposito bagagli”. Quanto alla motivazione addotta per la chiusura: “Ci può essere una giustificazione finanziaria, se il mio è il numero uno degli show serali?”
Anche Donald Trump ha preso parte allo scontro in prima persona. Sul social Truth ha postato: “Adoro che abbiano chiuso Colbert. Il suo talento è ancora minore dei suoi indici d’ascolto”. La reazione di Colbert, corredata dall’opportuno bip, è stata un liberatorio “Vaffa” in diretta nazionale. Trump però butta benzina sul fuoco: “Ho sentito dire che il prossimo sarà Jimmy Kimmel”, ennesima minaccia al povero telespettatore insonne, sospinto a riprendere in considerazione il settore porno-on-demand. Ma Colbert ricama col filo dell’ironia: “Macché: c’è solo un posto su questa croce”, ha replicato alle insinuazioni presidenziali, “l’assassino posso essere solo io. E la vista è bellissima di quassù”. A quel punto, libero da ogni guinzaglio, è passato a spargere sale sull’ultima piaga di Trump: il biglietto in possesso del Wall Street Journal scritta dal presidente a Jeffrey Epstein per il suo 50esimo compleanno, dai contenuti definiti “sessualmente suggestivi”. E giù martellate.
Va detto che la comunità dei conduttori-star dei programmi late night s’è stretta attorno a Colbert: la dipartita di uno di loro, in fondo, vale come l’annuncio di morte per gli altri, visti gli incredibili scenari americani che si vanno configurando. Jimmy Fallon, Seth Meyers, Jon Stewart, John Oliver si sono seduti nella platea del “Late Show” per offrire solidarietà al collega, con Adam Sandler, Lin-Manuel Miranda, Anderson Cooper a ingrossare la compagnia. Ma si può stare tranquilli: Colbert resterà a galla, il suo talento ne è garanzia e ci metterà poco a trovare nuove strade per esprimersi. Le macerie che si lascerà dietro, però, sono una descrizione dello stato di salute del paese, sulla quale gli stessi americani si spera ragionino. Va tutto bene così? E’ arrivata l’ora di mettere il bavaglio a commentatori, clown e poeti scherzosi? E’ quello che gli americani vogliono e fino a che punto? Sarà scopo primario di Colbert farli riflettere su questi argomenti, nelle cento e passa puntate che ha a disposizione per andare in onda senza rete. Sempre se altri bavagli non verranno predisposti.


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