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Il presidente ombra

Così Stephen Miller dirige il trumpismo anti immigrazione

Matteo Muzio

È con il tycoon sin dal 2016, e oggi è l’uomo che dalla posizione di vicecapo di gabinetto ha accentrato su di sé la nuova politica migratoria. A cominciare dall’uso spietato dell’Ice, la forza di polizia anticlandestini che a oggi ha un budget maggiore dell’Fbi

La seconda Amministrazione di Donald Trump non assomiglia a nessun’altra, nemmeno alla prima: c’è una presenza  sovradimensionata di lealisti, pochissimi esponenti del governo vengono dal Partito repubblicano che fu liberal-conservatore e che oggi  è  un guscio vuoto legato al culto del capo. Poi ci sono persone molto potenti che ricoprono  cariche apparentemente secondarie. E’ il caso di Russell Vought, a capo dell’Ufficio management e budget, che di fatto ha il controllo quasi totale sulla spesa pubblica, avendo assunto su di sé anche l’incarico del cosiddetto Doge, il dipartimento per l’Efficienza dello stato un tempo guidato da Elon Musk. In parte è anche il caso di Elbridge Colby, l’alto funzionario del Pentagono responsabile della sospensione degli aiuti militari all’Ucraina nelle scorse settimane  a insaputa dello stesso presidente.

E poi c’è Stephen Miller, che è con Trump sin dal primo giorno di presidenza, il 20 gennaio 2017. Anzi, da prima: è dal 2016 che il californiano di famiglia liberal classe 1985, diventato etno-nazionalista già dagli anni del liceo, ha deciso di lasciare il suo lavoro al servizio del senatore dell’Alabama Jeff Sessions per seguire Donald Trump nella sua prima  campagna elettorale. Oggi è l’uomo che dalla posizione di vicecapo di gabinetto ha accentrato su di sé la nuova politica migratoria, a cominciare dall’uso spietato dell’Ice, la forza di polizia anticlandestini che a oggi ha un budget maggiore dell’Fbi

A differenza di altri collaboratori del presidente, Miller è estremamente coerente nel suo obiettivo: ridurre a zero l’immigrazione illegale e rimandare a casa tutti gli irregolari. Possibilmente anche gli ingressi legali vanno ridotti. Lo ha detto in pubblico, coniando uno slogan sinistro: “L’America agli americani”. Quelli bianchi, ovviamente. Se però nel  primo mandato non era riuscito a implementare la sua agenda anche a causa dell’opposizione di altri membri del governo (primo tra tutti il generale John Kelly, segretario per la Sicurezza nazionale nei primi mesi di presidenza e poi chief of staff di Trump) a implementare deportazioni anche di irregolari che lavorano, da catturare anche sui luoghi di lavoro, in chiesa e persino tra i banchi di scuola, questo problema oggi non sussiste. Anche perché Miller non è mai stato lontano da Trump, nemmeno dopo il 6 gennaio, quando a nessun esponente repubblicano piaceva farsi vedere vicino al presidente. In quelle settimane ha assunto un ruolo quasi da eminenza grigia, anzi, da “primo ministro” ombra.

Questa volta non solo non ci sono oppositori al suo potere, ma secondo un’analisi pubblicata sul New York Times, rispondono al suo comando figure che, a differenza sua, che è un semplice collaboratore del presidente, sono state confermate nel loro ruolo da un voto del Senato. Lo fa Kristi Noem, segretaria alla Sicurezza nazionale, che sembra troppo occupata a posare per foto e video da pubblicare sui social dove la vediamo intenta ad “agire” contro i migranti vestita da agente dell’Ice oppure da militare. In apparenza, anche Pam Bondi sembra cedere a Miller il controllo reale del dipartimento di Giustizia. Pure alla Casa Bianca, spesso, l’ultima parola è proprio di Miller. Per sincerarsi che stavolta, a differenza che nel 2017, le cose vadano sempre come vuole lui, si è sincerato di nominare persone di sua fiducia anche al dipartimento della Salute, al dipartimento di stato e al dipartimento dell’Istruzione. Otto anni fa aveva imparato che anche da quei dipartimenti si può resistere agli ordini più draconiani

Ad accompagnare questa tenacia nel centrare un obiettivo che alla maggior parte degli americani sembra inumano (pure tra gli elettori del presidente) c’è la sua tendenza a stare lontano dai riflettori. E quelle poche volte che accetta di rilasciare interviste, in genere da giornalisti e podcaster amici, si prodiga in grandi elogi della leadership e delle capacità del presidente Trump, con toni a volte eccessivi persino nel clima di piaggeria regnante in questa Amministrazione. C’è infine una caratteristica che lo rende probabilmente l’unica figura indispensabile di questa presidenza: la sua capacità di tradurre in proposte  di legge i propositi autoritari del presidente. E questo lo rende molto più che un braccio destro. Lo rende quasi un presidente ombra, sopravvissuto ad altre figure più loquaci e appariscenti come Steve Bannon ed Elon Musk.
 

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