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Così nasce la pace? Il Pkk consegna le armi
Il Partito dei lavoratori del Kurdistan ha avviato il disarmo in un gesto simbolico che segna l’inizio del processo di pace con la Turchia, dopo 47 anni di conflitto. Il futuro del dialogo dipenderà da riforme concrete, ma restano forti dubbi sulla trasparenza e sulle reali intenzioni del governo Erdogan
Nelle montagne di Qandil, nel nord dell’Iraq, dove il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) ha da anni spostato il proprio quartier generale, ha preso ufficialmente il via ieri il processo di pacificazione tra l’organizzazione fondata da Abdullah Ocalan e la Turchia. Dopo 47 anni di guerriglia, una trentina di miliziani sono scesi dalle montagne e, nel corso di una cerimonia dal forte valore simbolico e di impatto, hanno deposto le armi in un calderone a cui è stati poi dato fuoco. La cerimonia segna un decisivo passo in avanti nell'ambito dell’iniziativa di pace avviata negli scorsi mesi dal governo turco e il Pkk.
A febbraio Ocalan aveva decretato che, alla luce del moderno contesto regionale, i presupposti ideologici e politici che per quattro decenni hanno sostenuto la guerriglia fossero ormai venuti meno, abbandonando le aspirazioni di uno stato curdo indipendente. Parte integrante del processo riguarderà dunque l’integrazione dei curdi del Rojava nelle istituzioni del nuovo governo siriano guidato da Ahmed al-Shara. In merito, questa settimana al-Shara ha incontrato a Damasco Tom Barrack, l'inviato speciale degli Stati Uniti in Siria che spinge per far avanzare l’accordo, e Mazloum Kobane, comandante in capo delle forze militari curde siriane. Per il governo di Recep Tayyip Erdogan, il processo di pace serve inoltre a dividere l’opposizione, creando una frattura tra il Chp del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu – dall’inizio dell’offensiva giudiziaria sono stati arrestati oltre 500 esponenti del partito – e il partito filocurdo Dem.
La palla passa ora nelle mani del governo. Tuncer Bakirhan, co-presidente del Dem che agisce da mediatore tra le parti, ha esortato l’avvio delle riforme democratiche promesse. “Finora (il governo, ndr) ha sempre indicato nel Pkk e nelle armi il vero problema. La questione d’ora in poi non è più sul tavolo”. Non ci sono tuttavia indicazioni chiare su quali riforme saranno affrontate e con quali tempistiche. Per i curdi, in cima alla lista c’è la liberazione dei prigionieri politici, la questione linguistica e lo stop alla rimozione dei sindaci eletti.
Ocalan, riapparso in un video diffuso mercoledì scorso a 26 anni dal suo arresto, ha ribadito la fine della lotta armata e ha esortato l’istituzione di una commissione parlamentare che supervisioni il disarmo e l’intero percorso di pacificazione. Il Dem chiede che la commissione parlamentare venga istituita prima della pausa estiva dei lavori parlamentari. Ad oggi, il monitoraggio di ogni passaggio è stato gestito esclusivamente dall’agenzia di intelligence di Ankara, il Mit. Funzionari turchi di alto livello sostengono che “la consegna delle armi rappresenta una pietra miliare del processo di pace”, un passo concreto per raggiungere l’obiettivo di “una Turchia libera dal terrorismo”.
Secondo un recente sondaggio pubblicato dal Rawest Research Institute, il 65% della popolazione turca appoggia il processo di pace. Il dato sale al 90% tra i curdi e riflette il cambiamento generazionale degli ultimi anni. Meno inclini alla guerriglia, i giovani curdi considerano la resistenza armata un retaggio del passato e vedono nella partecipazione politica lo strumento principale delle loro rivendicazioni. A questo si aggiunge il fatto che i curdi siano ormai diventati un attore politico chiave, sia in Turchia che nella regione.
Tuttavia, quasi il 42% dei turchi intervistati dubita che il processo avrà successo. Sin dagli albori, questo si è contraddistinto per la sua opacità, con l’opinione pubblica tenuta all’oscuro dei dettagli. La mancanza di trasparenza e partecipazione rispetto all’evoluzione di un conflitto che ha provocato oltre 40.000 vittime in quarant’anni alimenta i timori che il processo possa perdere legittimità. Eventuali sconvolgimenti del precario ordine regionale, dalla Siria all’Iran – dove la guerra con Israele ha riaperto le tensioni con i gruppi curdi – rischiano dunque di aprire la strada a un possibile nuovo fallimento, come già accaduto nel 2015.
Se da un lato l’opinione pubblica turca guarda con favore a una soluzione pacifica della questione curda, il sostegno resta legato agli sviluppi futuri. L’intreccio tra questo percorso e la riforma costituzionale voluta da Erdogan — che punta a rimuovere il limite dei due mandati presidenziali, offrendo ai curdi il voto come contropartita per il riconoscimento dei propri diritti — solleva forti resistenze nell’opposizione, che vi legge un espediente politico. Con Erdogan intenzionato a sfruttare il momento per consolidare definitivamente il proprio potere, i già delicati rapporti sociali potrebbero essere ulteriormente esacerbati.