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Bezos & Friends sono i padroni del mondo ma senza Trump rischiano grosso

Stefano Cingolani

Quanto sono cambiati i “ragazzi del garage”, creatori dell’universo digitale in cui viviamo. Hanno bisogno di energia infinita e l’unico che può fornirla è il Leviatano tech. Addio sogni anarchici

I“No Amazon” nascono a Parigi, ça va sans dire. Con grande sorpresa di Jeff Bezos che ha sudato sette camicie per ottenere la Legione d’onore e alla fine Emmanuel Macron gliel’ha appuntata al petto due anni fa. Quando nel 1999 sbarcò nella Ville Lumière per l’annuale fiera digitale, Bezos era sulla cresta dell’onda. Aveva da poco quotato la sua impresa allora concentrata sulla vendita di libri, anche se non faceva il becco di un quattrino. Il settimanale Time stava per nominarlo uomo dell’anno e tutti i riflettori erano accesi su di lui, persino più che su Steve Jobs il quale, con il suo fare ieratico e il suo estro scenografico, presentava dal palco il leggerissimo e coloratissimo “iMac to go” reggendolo sulle dita (gli altri capolavori come l’iPod, l’iPad e l’iPhone erano già in preparazione). Il corrispondente del Corriere della Sera si mise in fila per le interviste di rito (prima gli americani, poi i francesi e via via tutti gli altri cominciando dai giornali di maggior prestigio, attributo più importante delle vendite tra gli snob parigini). Fuori rumoreggiava il fronte del No, un bizzarro amalgama di intellò, gauchiste, librai sofisticati come Shakespeare and Company, ma anche i bouquinistes del lungo Senna timorosi di perdere i loro banchetti. Fu difficile strappare qualche frase degna di un titolo al profetico Jobs che si fece attendere a lungo e s’intrattenne brevemente mandando segni di insofferenza.

 

L’entusiamo per l’Amazon delle origini, la democratizzazione degli acquisti che annulla le distanze geografiche e quelle sociali

 

Poi saltò fuori Bezos, piccolo, magro, con una calvizie incipiente ancora non risolta dalla rasatura a zero, tutto pepe, occhietti puntuti e sorriso accattivante, un fiume in piena che sciorinava con fervore la sua impresa: “Ho cominciato dal libro perché più ogni altro prodotto è il simbolo del mio progetto”. Si trattava niente meno che della democratizzazione degli acquisti che annulla le distanze geografiche e quelle sociali. La vecchia vendita per corrispondenza passava per internet, ma dov’era la novità? Il consumatore non sarà solo il re, come si dice nel commercio, ma la fonte stessa della conoscenza, il motore che muove tutte le altre stelle grazie alle informazioni che passano attraverso la grande rete. “Amazon non è un supermercato online, è un’azienda high tech”, diceva allora Bezos: avrebbe utilizzato quel che è stato generato al suo esterno per innovarlo all’interno. Oggi è arrivata a usare più robot che forza lavoro umana, ma il suo vero vantaggio è la raccolta e la gestione dei dati. Come non farsi contagiare da tanto entusiasmo. Nel ricordarlo balza davanti agli occhi la differenza tra quel Bezos e il sessantenne siliconato più della moglie Lauren che abbiamo visto a Venezia. I tempi cambiano, lui è cambiato, tutti loro sono cambiati mentre cambiavano il mondo. 


I ragazzi del garage

 

Tim Berners-Lee e l’invenzione della rete, “ultima espressione su larga scala dell’anarchia”, società senza l’esigenza di un’autorità centrale


Difficile immaginare che gli uomini più ricchi e potenti della nuova èra abbiano cominciato così. Ma la loro parabola non comincia solo dal basso, comincia con un progetto rivoluzionario che fa saltare le gerarchie della società industriale costruita nel secolo precedente. Ms-Dos nasce nel 1982 e impiega qualche anno per affermarsi, ma arriva dove la potente Ibm non era riuscita ad arrivare. Gates aveva 27 anni, Paul Allen due di più. Il primo Macintosh è del 1984, Jobs aveva 29 anni, Steve Wozniak 34. Il World Wide Web arriva nel 1991, Tim Berners-Lee era più grandicello, 36 anni e non è uscito da un garage, ma dai laboratori del Cern di Ginevra. Il linguaggio, gli strumenti, la rete: Gates, Jobs e Berners-Lee hanno gettato i pilastri del mondo digitale. Poi sono arrivati gli altri. Jeff Bezos aveva trent’anni nel 1994 e lavorava ancora in finanza quando in un garage di Seattle inventa Amazon. Mark Zuckerberg veniva da Harvard e nella mensa dell’università a soli vent’anni fonda Facebook. Diversi per origini, milieu (bambini adottati Jobs e Bezos, borghesi benestanti Gates e Zuckerberg), carattere e paese (Berners-Lee è britannico e figlio d’arte), avevano un comune filo conduttore: se il linguaggio è quel che caratterizza il genere umano, scambiare informazioni, idee, lavori, fra tutti e per tutti, senza limiti, con la velocità della luce, faceva compiere un salto all’umanità. E a loro stessi, sia chiaro. Il guadagno restava comunque una molla essenziale, quando Bezos diceva “resteremo in rosso per molto tempo e questa è la nostra strategia” intendeva rovesciare il vecchio paradigma del commercio, schiacciare i guadagni era anche un modo per pagare poche imposte e a lungo Amazon ha versato allo zio Sam meno delle altre Big Tech. Lo stesso ha fatto Elon Musk, che ha impiegato 15 anni prima di tirar fuori un utile operativo da Tesla. Tasse a parte, avrebbero avuto successo se Wall Street non avesse creduto in loro? Bezos lo aveva ammesso fin dall’inizio e non aveva mai negato che, pur con tutti i suoi slanci umanitari, voleva diventare ricco. Per lui e per tutti loro vale il vecchio detto di Adam Smith: non è dalla benevolenza che vengono le innovazioni che hanno trasformato il mondo. Solo Berners-Lee non ha partecipato alla grande riffa.


I Signori della rete


Il ricordo di uno dei protagonisti, divenuto leggenda, vuole che il nome della “rete mondiale” sia nato nella caffetteria del Cern, mentre chiacchieravano tra loro Tim Berners-Lee e Robert Cailliau, un britannico e un belga che lavoravano all’ipertesto. Caillau ricorda che non amava nomi troppo pretenziosi, allora Berners-Lee propose una sigla, WWW. Insieme presentarono il progetto nel 1991. Un anno dopo il Cern rilascia gratis il browser portatile. Punto cruciale per i due scienziati europei era mettere a disposizione un linguaggio e un mezzo di comunicazione universale con un collegamento facile e non esclusivo. La differenza con i precedenti servizi online è abissale: prima c’erano tante tribù separate, ognuna delle quali parlava la propria lingua e cercava di espandersi a spese dell’altra. Internet, al contrario, “è l’ultima espressione su larga scala dell’anarchia; non nel senso di violenza libera e ingovernabile, ma piuttosto di una società che non solo non è governata da una autorità centrale, ma funziona senza l’esigenza di una autorità centrale”, secondo Berners-Lee.


Le cose prendono un’altra direzione quando entra in campo un ricercatore americano, Marc Andreessen, il quale, utilizzando i laboratori dell’università dell’Illinois, crea un sistema facile di collegamento da utilizzare sui calcolatori Unix. E’ il gennaio 1993 e a quel punto Internet esce dalla fase pionieristica per diventare una vera e propria rivoluzione tecnologica, la più importante dopo l’elettricità. Andreessen prepara un browser per Macintosh e un altro per Windows, poi insieme a Jim Clark, fondatore di Silicon Graphics, crea Mosaic Communications. I due partner affittano dei locali nell’università, poi mettono al lavoro i colleghi del laboratorio; nel giro di pochi mesi si trasferiscono tutti negli uffici della nuova impresa che si chiama Netscape e diventerà uno dei più grandi successi, tanto forte da sfidare Bill Gates asceso nel frattempo in cima alla scala digitale. Nel 1998 viene assorbita dal portale AOL (America online) per formare insieme a Sun (software e chips) l’alternativa a Microsoft sotto la guida di Steve Case, il quale, mentre Gates emette le sue sentenze scettiche sul futuro di Internet, diventa il signore della rete. 


Ma se l’ingresso nel web è gratuito e aperto a tutti, perché abbonarsi a un motore di ricerca? La risposta viene dalla capacità di offrire sempre più servizi in modo organizzato e con accesso il più semplice possibile. Internet è una foresta inesplorata nella quale ci si può perdere, il motore è un giardino all’italiana con i suoi percorsi, i suoi viali tra le siepi, i suoi labirinti costruiti per divertirsi, non per perdersi. “AOL ovunque” è il motto di Case. Più abbonati, più pubblicità, però gli investimenti costano, le acquisizioni accumulano debiti, i profitti languono, il futuro è il commercio elettronico, ma qui Amazon è stata più veloce degli altri. AOL diventa il numero uno dell’informazione e compra Time Warner nel gennaio del Duemila. Intanto si era creata una bolla finanziaria che nel 1999 comincia a esplodere e l’anno dopo creerà un vero e proprio crac. Va bene schiacciare i guadagni, ma chi ripaga gli investimenti? In borsa comincia una valanga di vendite e scatta quella selezione darwiniana dalla quale esce vincitore Google, tallonato da Yahoo. AOL nel 2007 finisce in Yahoo, a sua volta comprato da Verizon, prima compagnia americana nelle comunicazioni senza fili. Time Warner nel 2018 va alla AT&T, il colosso telefonico. L’intero scenario cambia; alla fine gli anni 90 sono stati l’assaggio del piatto forte che sarebbe venuto nel decennio successivo. 


I mangiatori di dati


Anche Google nasce metaforicamente in un garage grazie a due dottorandi dell’Università di Stanford: Larry Page e Sergey Brin, nato Sergej Michajlovic Brin a Mosca nel 1973 in una famiglia di ebrei che lascia il paese nel 1979. Il padre, un matematico, trova una cattedra nel Maryland, Sergey voleva fare l’astronomo, ma si butta sull’informatica e incontra Page, anche lui ebreo e figlio d’arte (i genitori entrambi matematici) il quale, cercando un tema per la sua dissertazione di dottorato, comincia a studiare le proprietà matematiche della rete WWW, incoraggiato dal suo supervisore. Larry cerca di scoprire quale pagina si collega alle altre e in base a quali caratteristiche. Coinvolge un assistente di ricerca Scott Hassan e poi anche Brin. Il progetto si chiama BackRub e i tre giovani capiscono presto le sue potenzialità. Page e Brin lasciano l’Università e fondano Google, allora un motore di ricerca piccolo, ma più sofisticato di altri. Hassan torna a dedicarsi alla ricerca. I suoi compagni d’avventura diventano miliardari e battono tutti, a cominciare da Yahoo, allora il principale contendente. Qual è il segreto? Page e Brin lo hanno raccontato in un libro nel 2018. PageRank, il sistema di ricerca, è certamente il punto di forza, il filtro è accurato, facile da usare (Google Chrome ha superato tutti gli altri browser) e soprattutto veloce. La velocità prima di tutto anche sacrificando l’eleganza del design, perché quattro utenti su cinque abbandonano dopo pochi secondi se una ricerca o un video si bloccano.


Un diluvio di dati rischia di allagare la rete e bloccarne l’uso se non si creano le infrastrutture per incanalare l’informazione. I dati vengono estratti, ma per molti vengono in realtà espropriati, e questo apre una vexata quaestio finora senza soluzione. I dati grezzi non valgono nulla, dicono i loro manipolatori; ciò vale anche per il petrolio grezzo, ciò non toglie che gli sceicchi s’arricchiscano con ricche royalties. La tassa digitale che oggi è diventata il pomo della discordia con l’America di Trump è una inutile scorciatoia. L’Unione europea ha discusso a lungo se far pagare le informazioni ai legittimi proprietari, cioè ogni persona che entra nella rete e accetta di cederle. Non se ne uscirà forse mai. Intanto l’economia digitale ha costruito le sue proprie regole, una delle quali in inglese è chiamata stickiness: quanto tempo e quante volte un utente rimane “appiccicato”. Tutto dipende dall’attenzione, una risorsa sempre più scarsa in questa biblioteca di Babele nella quale siamo immersi. Il premio Nobel Herbert Simon, vero pioniere dell’intelligenza artificiale, ha lavorato a lungo sul sovraccarico di informazione e la brevità dell’attenzione. E’ morto nel 2001 prima di vedere quanto aveva ragione, perché il segreto è proprio catturare l’attenzione nel più breve tempo possibile. 


Per raggiungere questo scopo Google ha costruito non si sa quanti mega data center (il numero è segreto), con oltre un milione di computer a fare da server, ha speso miliardi di dollari in fibra ottica, un’infrastruttura possente e costosissima. Non basta più uscire dal garage, e nemmeno dalla caffetteria di Harvard dove Mark Zuckerberg ha inventato Facebook in una fredda giornata del febbraio 2004. Doveva servire per comunicare tra studenti e per rimorchiare più facilmente, è diventato quel che sappiamo. Sono storie note, anzi sono ormai leggende. Ora i motori di ricerca o i social media sono piattaforme tecnologiche complesse e ramificate che immagazzinano, gestiscono, manipolano dati. Per fare cosa? Farci soldi in cambio di pubblicità, ma anche (oggi forse soprattutto) per creare consenso, vedi cosa è diventato Twitter dopo che Elon Musk l’ha comprato e rinominato X, o vedi Trump che si fa la sua tromba di guerra su Internet. Il motto di Netflix, secondo il quale “ogni cosa è un suggerimento” in base alle informazioni estratte dagli utenti, apre praterie inesplorate e dipinge scenari che possono diventare inquietanti ora che l’intelligenza artificiale generativa è diventata l’ultimo campo di battaglia. E qui arriva una nuova “razza padrona”.


La combriccola dell’anello


La chiamano “PayPal mafia”, in realtà a loro piacerebbe di più essere paragonati alla compagnia del romanzo di Tolkien al quale sono particolarmente affezionati. Nel 1998 si mettono insieme per creare una società che offre pagamenti in forma digitale. Solo uno di loro, Ken Howery, è nativo americano: Peter Thiel è tedesco, Luke Nosek è polacco, Elon Musk, che si aggregherà nel 2000, è sudafricano, Max Levchin è ucraino, Yu Pan cinese. Dopo i primi stenti diventa un successo e nel 2002 viene venduta a eBay per un miliardo e mezzo di dollari (diventerà una società indipendente nel 2015). Ciascuno prosegue per la propria strada senza mai lasciarsi davvero (Nosek ha investito molto in SpaceX, Thiel in Tesla). La mente è Peter Thiel. Nel 2007 scrisse un lungo articolo, in realtà un vero e proprio saggio, intitolato “Il momento straussiano”. Parte dallo choc dell’11 settembre come l’evento che segna lo spartiacque e rivela la vulnerabilità dell’occidente. Ma l’occidente era ormai vulnerabile al suo interno. Dopo una digressione sulla natura umana tra Machiavelli, Hobbes, Voltaire, Smith, Marx, Locke e il “compromesso americano” (si vede che ha letto, vecchia scuola tedesca), arriviamo a Carl Schmitt per il quale prendere parte è proprio dell’uomo (di qui la sua teoria del partigiano) e “l’essenza della politica è riconoscere il nemico come nemico”. “Siamo arrivati a un impasse”, scrive. “Da una parte il Nuovo Illuminismo (che sta per globalizzazione, ndr.) mai diventato inclusivo su vasta scala, dall’altra il ritorno alla tradizione”. Leo Strauss cerca di risolvere questo paradosso con una delle sue formule da iniziati: “L’unità di conoscenza e comunicazione della conoscenza può essere paragonata alla combinazione di uomo e cavallo sebbene non in un centauro”. Qualunque cosa voglia davvero significare, questa nuova coppia uomo-cavallo affascina Thiel il quale arriva di qui al suo maestro, il filosofo francese René Girard che ha insegnato a Stanford, e alla teoria del capro espiatorio. Solo con una vittima sacrificale si può evitare che la “rivalità mimetica” diventi violenza generalizzata, dice Girard, che da buon cattolico aveva in mente il sacrificio di Cristo. Ma cosa c’entra con il mondo digitale? C’entra, Palantir è il nome della pietra magica che trasmette la conoscenza nel “Signore degli Anelli”; e qui siamo a Strauss. Ma chi è la vittima destinata? A giudicare dagli sviluppi del pensiero di Thiel e dei suoi pal, è la democrazia liberale che ormai è diventata un impaccio. Palantir entra nell’agone politico a favore di esponenti prima della destra libertaria come Ron Paul poi della destra autoritaria; punta su Trump quando vince la nomination nel 2016, e spinge Musk a cambiare bandiera. Oggi la vera sfera di cristallo che comunica solo a guardarla (come il palantir di Tolkien) è l’intelligenza artificiale ed è su di essa che la compagnia degli anelli intende puntare.


La pietra filosofale


Quando Jen-Hsun Huang fu mandato insieme al fratello maggiore a Tacoma, nello stato di Washington, dove viveva un lontano parente, non immaginava certo di diventare uno dei più ricchi d’America. Oggi sarebbe deportato nella nativa Taiwan o in Thailandia dove vivevano i genitori. Inizi durissimi, in un dormitorio, cameriere in un ristorante per pagarsi gli studi (ha detto che gli ha insegnato l’umiltà), poi la laurea in ingegneria e il master a Stanford. Elegia americana, altro che Vance. Nel 1993, a trent’anni, fonda Nvidia, produce microchip e la società viene quotata in borsa prima che scoppi la bolla di Internet. Il suo prodotto  fondamentale è l’elaborazione grafica (nome in codice Gpu), il suo mercato è il videogioco (Playstation, Nintendo), poi l’automobile. Il suo segreto: concentrarsi sulle applicazioni, un sentiero che porta Nvidia alla grande svolta, quando tra il 2015 e il 2016 si tuffa nell’intelligenza artificiale. Nel frattempo si era fatto strada Sam Altman. Nato a Chicago nel 1980, smanettava sul suo primo computer già a otto anni, ha studiato informatica a Stanford senza però laurearsi ,e si è messo presto nel mondo delle start up tecnologiche fino a dedicarsi all’intelligenza artificiale. OpenAI nasce nel 2015 come laboratorio di ricerca ed entrano Thiel, Musk, Amazon e altri. Si avvicina anche Satya Nadella, il gran capo di Microsoft con il quale sorgeranno forti tensioni. Intanto si afferma ChatGPT, linguaggio sviluppato da OpenAI. Un nuovo Google che spiazza il vecchio? Sono cose diverse, Google ci offre dati in tempo reale e contenuti in base alle nostre preferenze, ChatGPT genera informazioni da altre informazioni. C’è chi ha fatto un esempio molto chiaro: Google è un bibliotecario che trova in un battibaleno qualsiasi libro gli si chieda, ChatGPT è un bibliofilo che ha letto tutti i libri finora a disposizione e risponde in base a quel che ha imparato. Ma per non essere spiazzato, anche Google ormai integra l’intelligenza artificiale così come stanno facendo Apple e via via tutti gli altri. E’ una corsa che ha dei limiti: uno intrinseco, cioè fino a che punto è possibile imitare il funzionamento del cervello e arrivare al pensiero umano; gli altri esterni, ovvero quanto costa questa macchina potentissima, chi la gestisce e dove la vuol portare. Ma qui usciamo dai sentieri della tecnica e dell’economia. 


Leviatano high tech


Donald Trump non è simpatico né generoso, di facili amori e ancor più facili dissapori. Con Elon Musk non si è mai inteso davvero, dopo la clamorosa rottura e la finta riconciliazione siamo ai pesci in faccia. “Senza sussidi dovrebbe chiudere bottega e tornare in Sudafrica”, ha dichiarato, e non esclude di deportarlo visto che c’è qualche pasticcio per come si sarebbe procurato la cittadinanza – lo ha denunciato Steve Bannon, l’ideologo dei Maga. Musk ha speso 300 milioni di dollari negli stati in bilico per comprare la presidenza a The Donald che adesso lo ringrazia così. Caduta di stile a parte (quale stile?), il presidente dice una scomoda verità: chi tra i Magnifici Sette (Meta, Tesla, Alphabet, Amazon, Apple, Microsoft e Nvidia) potrebbe oggi resistere senza la mano ben visibile dello stato? Il giorno dell’inaugurazione attorno a King Don c’era una corte degna di Ivan il Terribile e faceva impressione vedere i Signori dell’universo digitale scodinzolare come cuccioli attorno al padrone. Davvero si sono ridotti così? E’ solo opportunismo, piaggeria, scambio di interessi? Oppure i campioni dell’innovazione, gli epigoni dell’imprenditore schumpeteriano sono diventati boiardi di stato e le loro aziende sono di fatto a partecipazione statale? Silicon Valley, tempio liberal, non si è spostata a destra, ma a Washington.


Oggi la Grande Rete ha bisogno di giganteschi impianti e immensi investimenti. L’intelligenza artificiale richiede ancora di più e assorbe una incommensurabile quantità di energia, tutti si chiedono fino a che punto potrà assorbire le risorse americane. Palantir lavora per il governo e ora dovrebbe raccogliere in un mega data center le informazioni sui cittadini americani, scrive il New York Times. E’ come se Frodo portasse l’anello a Sauron. Il povero Tolkien tutto casa, chiesa, università e famiglia si rotolerà nella tomba. Jeff Bezos sta danzando come un folletto attorno alla Casa Bianca affinché la Nasa dia anche a lui almeno una fetta di quello che ha dato in questi anni a Musk il quale, senza il sostegno per SpaceX e Starlink e senza che Washington chiuda un occhio sugli affari della Tesla tra Pechino e Shanghai, difficilmente potrebbe continuare a mietere dollari. Ma come, non erano tutti per il libero mercato? Lo erano, un tempo. Thiel almeno è coerente, il suo pindarico volo da Hobbes a Carl Schmitt attraverso Nietzsche lo porta dritto al Leviatano, anche se un Leviatano high tech.


Negroponte o Schumpeter?


I ragazzi del garage erano all’inizio seguaci di Nicholas Negroponte, il guru, anzi lo stregone (con quel cognome) dell’èra digitale nella sua fase ascendente. Nel 1995 pubblicò quella che venne considerata la sua bibbia, dal titolo “Essere digitali”. Il mantra era che Internet sarebbe diventata la grande agorà della democrazia universale. La rivoluzione informatica era la rivoluzione dell’informazione, avrebbe consentito di creare a ciascuno il proprio giornale che aveva chiamato The Daily Me, Io quotidiano. “Gli imperi monolitici dei mass media si stanno frantumando in una miriade di piccole imprese”, scriveva Negroponte. Parole nella sabbia, sono bastati pochi anni per capire che aveva torto. Come mai? Se applichiamo la geografia economica al cyberspazio troviamo un crescente processo di concentrazione, il contrario di quel che si era detto e visto finora, molto più vicino alla teoria di Joseph A. Schumpeter. Si comincia con l’eroico inventore che diventa l’innovatore amante del rischio; chi vince crea un’impresa di successo che crescendo si trasforma in “una unità industriale gigante perfettamente burocratizzata che alla fine espropria la stessa borghesia”, ha scritto l’economista austro-americano, tanto che “i veri battistrada del socialismo furono i vari Vanderbilt, i Carnegie, i Rockefeller”. E a lui il socialismo non piaceva proprio. Cambiamo i nomi: Bezos, Musk, Thiel, mettiamo capitalismo di stato al posto dell’obsoleto socialismo, e il risultato non cambia. 


Le profezie di Negroponte non sono svanite del tutto, molti giurano che la libera concorrenza regna ancora e arrivano sempre nuovi ragazzi del garage pronti a inventare e innovare. Per questo ogni regolamentazione può diventare controproducente, finisce per rafforzare l’incombente, colui che ha già conquistato una posizione dominante. Berners-Lee sognava una sorta di “comunismo digitale” e diceva: “Nel web non c’è qualcosa di superiore all’altro”. Invece sì. Amazon, Facebook, eBay, Google, Facebook, Microsoft e Yahoo catturano buona parte di tutte le visite nella rete. Il paradigma di Schumpeter ha la meglio su quello di Negroponte a meno che il ciclo non ricominci grazie a nuove scoperte e innovazioni. Ripartirà dalla Cina e non dall’America? Può darsi, visto quel che accade anche con l’intelligenza artificiale. Sarà quella quantistica a rovesciare i modelli tradizionali? Forse. Tutti la cercano, dai colossi come IBM allo stesso Altman, finora nessuno l’ha trovata. Alla prossima puntata.

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