
Il ruolo del Qatar nelle trattative fra Israele e Hamas
Trump vuole annunciare il cessate il fuoco personalmente, anche se secondo il piano la liberazione degli ostaggi è lenta e rischiosa. Le condizioni della tregua, i "no" che gli americani non accettano su Doha e Netanyahu a Washington
L’abitudine ha l’abilità di diventare una regola e se anche questa visita di Benjamin Netanyahu a Washington produrrà un grande annuncio da parte di Donald Trump allora si potrà evincere che il presidente americano ha deciso che ogni volta che si trova al fianco del primo ministro israeliano vuole stupire lui. Netanyahu era stato il primo leader straniero a essere ricevuto alla Casa Bianca da Trump e, mentre era seduto nello Studio ovale con la stampa attorno, sentì il presidente americano annunciare il piano per rendere la Striscia di Gaza la Riviera del medio oriente. Dalla mimica si capiva che il premier israeliano non fosse stato messo al corrente della decisione di Trump di annunciare un piano per portare via i palestinesi dalla Striscia, ricostruirla e farne un regno del lusso.
Netanyahu tornò da Trump circa un mese dopo e anche allora il presidente americano aveva un annuncio da fare e non ne aveva informato il suo ospite. Non fu un annuncio gradito: il presidente americano disse che gli Stati Uniti avrebbero avviato la settimana seguente colloqui diretti con gli iraniani sul programma nucleare. L’Amministrazione americana non ne aveva parlato con gli israeliani, che invece sostenevano che la Repubblica islamica dell’Iran non si sarebbe mai impegnata in un colloquio serio. Lunedì 7 luglio ci sarà la terza visita di Netanyahu da Trump, avverrà dopo la guerra contro Teheran, dopo l’intervento americano per colpire gli impianti nucleari iraniani e durante l’attesa di un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Trump ha annunciato che Israele ha già accettato l’ultima proposta di accordo che prevede sessanta giorni di cessate il fuoco per la liberazione di dieci ostaggi vivi e la consegna dei corpi di diciotto ostaggi morti in cinque fasi. Durante i sessanta giorni, Israele e Hamas dovrebbero discutere come far finire la guerra. I terroristi della Striscia vogliono una rassicurazione da parte degli Stati Uniti che saranno i garanti del cessate il fuoco. Israele, per fermare la guerra, vuole che tutti gli ostaggi tornino a casa e che Hamas accetti di essere disarmato. Le due posizioni sono inconciliabili e non esistono vie di mezzo. Probabilmente il 7 giugno, Trump vorrà approfittarne per fare un altro annuncio in grado di sbalordire, in modo positivo o negativo, Netanyahu.
L’ultima bozza per una proposta di accordo è stata redatta dal Qatar che è tra i più prominenti mediatori dall’inizio della guerra, pur trovandosi in una posizione non neutrale. Il Qatar ha finanziato Hamas, ospita i suoi leader, ha un buon rapporto con la Repubblica islamica dell’Iran, promuove una politica interna ed estera contro Israele ma nonostante tutto ha la fiducia e il sostegno degli Stati Uniti, indipendentemente dal colore delle amministrazioni. Il segretario di stato americano di Joe Biden, Antony Blinken, sosteneva lo sforzo diplomatico del Qatar e lo stesso fa Donald Trump. Rispetto al 7 ottobre, c’è un cambiamento: la leadership che prende davvero le decisioni per il futuro del gruppo non è più nella Striscia di Gaza, ma è a Doha. I fratelli Sinwar, Yahya e Mohammed, e Mohammed Deif avevano capovolto i rapporti di forza dentro Hamas, le decisioni venivano prese da loro, meno simpatizzanti del Qatar rispetto ai leader che vivono a Doha. In queste condizioni, il Qatar emerge come un attore principale, ma molto pericoloso per Israele. “Il Qatar continua a sostenere Hamas pur tenendosi impegnato nei negoziati. Bisogna sempre distinguere le azioni reali e dimostrative”, dice Ariel Admoni, esperto di Qatar dell’università israeliana Bar-Ilan. Doha è riuscita a emergere come il canale principale per parlare con Hamas e si vende bene questo ruolo con gli americani. “Sa che per continuare ad avere l’attenzione degli Stati Uniti bastano azioni dimostrative, come annunciare di voler espellere i leader di Hamas o imporre loro di disarmarsi”. Questa settimana il Qatar ha detto agli uomini del gruppo di deporre le armi personali: “E’ poco più che un annuncio, la sicurezza dei leader di Hamas non dipende dalle armi che hanno in tasca, ma dal Qatar. Senza un vero risultato, Doha ha ottenuto qualcosa di cui vantarsi”. Gli Stati Uniti si fidano e Trump in particolare ha già mediato due accordi attraverso il Qatar: quello con i talebani durante il primo mandato (che consentì di fatto il ritorno dei talebani) e quello tra Ruanda e Congo firmato la scorsa settimana a Washington. Gli americani si sono affidati al Qatar anche per organizzare la risposta militare dell’Iran agli attacchi contro i siti nucleari. C’è un uomo in particolare che si fida ed è l’inviato speciale per il medio oriente Steve Witkoff che nel settore immobiliare ha spesso avuto a che fare anche con Doha. “Israele non ha alternative – dice Admoni – sa come si comporta il Qatar, conosce la differenza tra gli annunci e i fatti, come la promozione di campagne contro Israele, ma deve tenere per sé queste considerazioni. Il Qatar ha relazioni molto buone con gli Stati Uniti, è difficile muoversi contro”. Nella bozza di accordo per il cessate il fuoco ci sono diversi punti non convenienti per Israele, il primo riguarda gli ostaggi, il secondo il ritiro di Tsahal senza garanzie, il terzo la mancanza di rassicurazioni sul futuro di Hamas. Il ruolo del Qatar, come mediatore e garante, è un altro dei punti sconvenienti e per Trump non negoziabili.



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