Il sultano dell'Oman Haitham bin Tariq al-Said (foto ANSA)

La svizzera del medio oriente

Il ruolo dell'Oman (e di Hormuz) nei negoziati tra Iran e Stati Uniti

Fabio Scacciavillani

Nonostante la rivoluzione islamica del 1979 e altri profondi cambiamenti politici, il paese ha mantenuto sempre una posizione di neutralità e dialogo fra Teheran e le monarchie del Golfo o l’occidente. Breve storia di un rapporto secolare e attuale

Lo snodo del negoziato di pace tra Iran e Stati Uniti è stato tradizionalmente un paese che nel turbolento calderone mediorientale mantiene un profilo defilato (in linea con la natura dei suoi abitanti) ma cruciale: il sultanato dell’Oman. Il ruolo dell’Oman apparve determinante già all’epoca dell’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) siglato nel 2015 da Obama, nonché da Unione europea e dal P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – più la Germania). L’architetto di quel successo diplomatico, poi cancellato da Donald Trump all’inizio del suo primo mandato, fu Sayyid Badr bin Hamad al Busaidi, all’epoca segretario generale del ministero degli Esteri, promosso a ministro nel 2020 dal nuovo sultano Haitham. Figlio d’arte (suo padre fu ministro del Diwan, di fatto il braccio destro del sultano), educato nel Regno Unito, laureato a Oxford, con i suoi modi misurati, affabili e felpati è ritenuto uno dei più abili e lucidi diplomatici sulla scena internazionale. Anche con l’avvento di Trump, nonostante i venti geopolitici di tempesta, ancora una volta aveva ricucito pazientemente la tela sdrucita dei rapporti fra Stati Uniti e Iran facendo leva sul suo prestigio e sugli eccellenti rapporti instaurati con entrambe le controparti. Con Washington la cooperazione risale al Trattato di amicizia e libera navigazione del 1833 e nel 2006 venne rafforzata da un accordo di libero commercio che azzerò i dazi. In campo militare i due paesi nel 1980 firmarono un accordo rinnovato nel 2010, che aprì alle forze armate statunitensi le basi militari omanite. Da allora centinaia di ufficiali omaniti si sono formati negli Stati Uniti, mentre la Marina utilizza porti strategici omaniti sull’Oceano Indiano come Salalah e Duqm, che in caso di guerra per Taiwan fornirebbero una preziosa base logistica.

Il rapporto secolare tra Iran e Oman si cementò nel 1973, quando lo scià Reza Pahlavi sostenne il sultano Qaboos bin Said durante la ribellione comunista nel Dhofar, estremo lembo sud-occidentale, sostenuta dallo Yemen del Sud in combutta con l’Unione sovietica e la Cina. L’Iran inviò circa 4.000 soldati per aiutare le forze omanite e britanniche a reprimere l’insurrezione. Questo intervento fu decisivo per la vittoria del sultano e contribuì a consolidare il suo potere, oltre a dare impulso alla modernizzazione del paese. Non fu un sostegno totalmente disinteressato: l’Iran condivide con l’Oman la sovranità sullo Stretto di Hormuz, quindi lo scià scongiurò di ritrovarsi russi e cinesi come dirimpettai in un punto strategico di capitale rilevanza.

 

                      

 

Nonostante la rivoluzione islamica del 1979 e i profondi cambiamenti politici in Iran, l’Oman ha mantenuto sempre una posizione di neutralità e dialogo fra Teheran e le monarchie del Golfo o l’occidente (che gli è valsa la fama di “Svizzera del medio oriente”). Tale ruolo poggia anche su una componente religiosa: la maggioranza degli omaniti non è né sunnita, né sciita, bensì ibadita, una confessione discendente dal kharigismo diffusa ai primordi dell’islam, ma ormai quasi dimenticata.

E’ quindi  improbabile che l’Iran abbia davvero intenzione di bloccare lo Stretto di Hormuz, anche nel caso in cui la tregua dovesse fallire. Rovinerebbe irrimediabilmente con un atto di guerra il rapporto stretto con l’unico paese amico in Arabia, oltre che con la Cina a cui vende quasi tutto il suo petrolio trasportandolo attraverso Hormuz. Del resto, nonostante gli ibaditi siano contrari alla violenza, l’Oman mantiene un esercito numeroso, ben addestrato ed equipaggiato.

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