
(foto EPA)
Il colloquio
Perché Parigi è scettica sul regime change in Iran. Il rapporto da “carina della classe” con Trump
L’impotenza degli alleati su Trump e i nuovi calcoli di Putin. Intervista con Gallagher Fenwick, uno degli inviati di guerra più popolari di Francia
Parigi, dalla nostra inviata. “Il rapporto tra Donald Trump ed Emmanuel Macron è molto più importante per Parigi che per Washington”, dice al Foglio Gallagher Fenwick, uno degli inviati di guerra più popolari in Francia, in questi giorni se accendi la tv su Lci lo trovi sempre. “Secondo i diplomatici francesi, i due presidenti si sentono con regolarità, si scambiano messaggi e fanno brevi conversazioni telefoniche. Di recente ho chiesto a uno di questi diplomatici perché Trump continui a rispondere a Macron e la sua risposta spiega bene la natura del loro rapporto: per il presidente americano, i francesi sono come ‘la ragazza carina della classe’. Macron non ha molto peso, ma ha un certo fascino agli occhi di Trump: è un rapporto fragile, ma nonostante i parecchi incidenti regge ancora”. Fenwick non crede però che possa durare. “Considerato il disprezzo di Trump per le regole e la sua propensione alla vicinanza con i russi, questa relazione è destinata a una rottura, prima o poi esploderà. L’obiettivo è ritardare quel momento il più a lungo possibile”.
In questi giorni di attesa, l’ambiguità di Trump è aumentata e a Parigi come nel resto dell’Europa si cerca di dare una spiegazione a questa nuova imprevedibilità. “Attorno a Trump, ci sono persone con visioni profondamente diverse – dice Fenwick – C’è una guerra dentro la guerra. Sulle questioni interne, c’è ampio consenso all’interno del movimento Maga, ma non c’è alcuna unità quando si tratta di ridefinire il ruolo dell’America nel mondo. Persone influenti come Tucker Carlson sostengono che gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare completamente Israele e in generale evitare ogni conflitto che non riguarda l’America: un nuovo coinvolgimento militare americano in medio oriente infliggerebbe un duro colpo all’agenda interna di Trump e porterebbe alla fine del movimento Maga, dividendolo nel profondo. Dall’altro lato, i falchi considerano l’Iran come il nemico supremo, sostenere Israele, qualunque cosa faccia, è una necessità geopolitica e morale. Sarà Trump a decidere chi vincerà lo scontro, e da ciò dipenderà anche il futuro del suo movimento”, oltre a quello del resto del mondo. Con Macron, Fenwick non è tenero: “La filosofia di Macron è stata definita ‘en même temps’, fa o propone cose contemporaneamente molto contraddittorie. Da un lato, definisce vergognose le azioni di Israele a Gaza, dall’altro afferma che Israele ha il diritto di difendersi, dopo aver lanciato attacchi preventivi contro l’Iran. La debolezza della sua politica estera, che si tratti dell’Ucraina, di Gaza o, probabilmente, dell’Iran in un futuro prossimo, è l’incoerenza. Fluttua, va a zig-zag, poi si corregge, ma la mancanza di chiarezza morale su questioni che definiranno quest’epoca danneggia la sua credibilità. Macron sa che tutti vogliono liberarsi del regime iraniano e delle sue armi nucleari, ma fatica a ricordare che i mezzi per raggiungere l’obiettivo sono altrettanto importanti”.
Fenwick conosce bene il medio oriente, è stato corrispondente a Gerusalemme per France24, ha scritto un libro sul 7 ottobre ed è abbastanza pessimista: “Se la diplomazia fallisce, indipendentemente dal coinvolgimento degli Stati Uniti, la guerra con l’Iran si trasformerà in un pantano. L’Iran è grande 1,6 milioni chilometri quadrati, tra forze regolari e Guardiani della rivoluzione, si può mettere insieme quasi un milione di combattenti. Se Israele vuole davvero ‘finire il lavoro’, è difficile immaginare come ciò possa avvenire senza un’operazione di terra. Come direbbe Donald Trump: good luck with that”. E storicamente i regime change portati avanti da una forza militare straniera non sono durati a lungo, Fenwick cita impietoso l’Afghanistan e chiede: perché in Iran dovrebbe essere diverso? Anche Macron dice che un cambio di regime solo con le armi non è dato. “Gli iraniani hanno tutto il diritto di fare il possibile per liberarsi degli ayatollah che, secondo una commissione investigativa dell’Onu, hanno commesso crimini contro l’umanità durante la repressione dell’ultima rivolta. Ma pensare che un intervento straniero sarà la rovina del regime e porterà alla nascita di un governo democratico è una scommessa rischiosa, se non assurda”. Ci vorrebbe un’idea di nation building, ma questa già funzionava a singhiozzo all’inizio del secolo quando un’attenzione ai popoli repressi c’era, figurarsi ora che l’Amministrazione Trump pensa soltanto a far rientrare gli investimenti dall’estero mentre posta sui social la sua indecisione strategica.
Ma se da questa parte del mondo ci interroghiamo sui rapporti traballanti fra alleati, anche il fronte dei regimi, considerato più compatto del nostro democratico, presenta ora una crepa importante. “La Russia ha chiarito che non aiuterà l’Iran – dice Fenwick – I funzionari iraniani si sentono traditi, dato che avevano un accordo di sicurezza con i russi. Avrebbero dovuto consultarsi con gli armeni prima di fidarsi del fatto che i russi, già sovraccarichi, avrebbero dato una mano. I russi non sono riusciti a impedire ad alcuni ex jihadisti di rovesciare Bashar el Assad. Sanno che non possono fare nulla contro gli israeliani, che hanno il sostegno diretto degli americani. Putin ha persino offerto di fare da mediatore tra iraniani e israeliani: beffardo fino alla fine!”. La nostra conversazione finisce con l’Ucraina e con il suo presidente (al quale Fenwick ha dedicato un libro) che sulla fiducia negli alleati ha imparato molte cose, sulla propria pelle e su quella degli ucraini. “Volodymyr Zelensky ora sa che in guerra non ci si può mai fidare completamente degli attori esterni. A questo punto, non ha altra scelta che rivolgersi sempre di più agli europei per armi, sostegno finanziario e garanzie di sicurezza. Vede gli americani allontanarsi rapidamente. Adesso il mondo rivolgerà gran parte della sua attenzione all’Iran, e questa non è una buona notizia per Kyiv. Vladimir Putin se ne approfitterà, continuerà a colpire e terrorizzare gli ucraini, sperando che, a loro volta, chiederanno a Zelensky di fare concessioni. Il presidente ucraino ne ha già fatte di costose, la Russia non ne ha fatta nessuna. Questo, e la situazione sul campo, sono un promemoria chiaro: Putin ha fame solo di guerra”.