I manifesti che commemorano i cinque martiri di Aleppo 

tra storia e leggenda

L'operazione segreta che ha aperto le crepe nel regime assadista ad Aleppo

Luca Gambardella

Svelati i nomi dei cinque martiri che hanno sacrificato la propria vita aprendo la strada all'avanzata dei ribelli. Chi sono le Bande rosse che hanno abbattuto Assad ora minacciano i russi

Deposto il regime, la Siria  vive ora una stagione altrettanto cruciale per legittimare il nuovo potere: è quella della memoria, della celebrazione dell’epica rivoluzionaria. Ad Aleppo, il sacrificio di oltre 14 anni di combattimenti ha il volto di cinque giovani comparsi  sui manifesti commemorativi che in questi giorni tappezzano l’antica cittadella. Su ciascuno compare la scritta che è il massimo degli onori per un combattente votato al jihad: “Shahid”, recita, cioè martiri della rivoluzione. La settimana scorsa, il condottiero-presidente, Ahmad al Sharaa, ha partecipato a un evento per ricordare questo  drappello di uomini che con un’operazione chirurgica, lo scorso novembre, ha aperto la strada ai ribelli fra Idlib e Aleppo e poi giù, fino a Damasco. L’ultima volta che Sharaa era stato qui indossava l’uniforme. Stavolta è tornato in vesti presidenziali, giacca e cravatta,  sorpreso dalle telecamere mentre guardava commosso i filmati celebrativi dell’avanzata dei suoi uomini. 

 


 



Fra i siriani le gesta dei cinque martiri sono diventate leggendarie: se tutto questo è stato possibile, dicono, se le macerie di Aleppo che sembrava perduta per sempre sono tornate a essere un luogo di festa, lo si deve in buona parte al loro sacrificio. Le loro “reliquie”, i fucili e le mimetiche che indossavano durante l’ultima missione sono ora esposte in altrettante teche di vetro, adagiate su un fondo di velluto rosso. I loro nomi sono stati svelati solo di recente: Abu Hafs Mizanaz, Abu Ahmad Kafar Ruma, Abu Ghiyath Bdama, Abu Zayd al Ash’ari al Homsi, Abu Basir al Ruji. Tutti  fervidi credenti, spinti da motivi più che religiosi ad arruolarsi tra le file di Hayat Tahrir al Sham, le forze islamiste che in pochi giorni hanno sbaragliato la dittatura sponsorizzata da Russia e Iran. Tutti accomunati da una giovinezza trascorsa in guerra, costretti dal regime ad abbandonare le proprie terre insieme alle loro famiglie e sufficientemente motivati ad arruolarsi  prima tra i ranghi di Jabhat al Nusra, il gruppo terroristico vicino ad al Qaida, e poi agli ordini di Muhammad al Julani, il nome di battaglia dell’attuale presidente Sharaa. 

 

 

La vicenda dell’operazione segreta del 27 novembre 2024 al covo del comando assadista di Aleppo era diventata di pubblico dominio già due giorni dopo, confermata direttamente dalla cabina di comando che da Idlib seguiva gli eventi dell’“Operazione deterrenza d’aggressione”. L’offensiva lanciata da Hayat Tahrir al Sham fu pianificata per stessa ammissione dei ribelli per oltre cinque anni. A raccontare questa prima fase dei combattimenti di Aleppo fu Ahmed al Dalati, un fedelissimo di Sharaa – oggi noto per essere colui che per conto di Damasco si ritrova a trattare la pace con Israele nel sud della Siria. “Il primo giorno d’azione, abbiamo operato dietro le linee nemiche con una nostra unità speciale – aveva rivelato Dalati in una intervista al quotidiano saudita al Majalla – Grazie alle informazioni di intelligence e alle nostre capacità di infiltrazione siamo riusciti a penetrare l’operation room per eliminare i comandanti del regime. Fortunatamente erano tutti presenti e una volta che la missione speciale ha avuto successo è iniziata l’offensiva. Il regime è collassato. Tutto è crollato”. Secondo le ricostruzioni raccolte, la squadra speciale era stata divisa in tre unità, ciascuna con una missione diversa. Un gruppo era stato dislocato a ovest di Aleppo, a Mansoura, con il compito di creare il panico fra le linee difensive del regime, mentre una seconda unità doveva attaccare il 46esimo reggimento assadita, lungo l’asse tra Qubtan al Jabal e Shaykh ’Aqil. La terza unità, quella dei cinque shahid, era riuscita a penetrare all’interno di Aleppo passando per tunnel sotterranei fino ad arrivare al circolo ufficiali della città, secondo alcune ricostruzioni raccolte dal Foglio, per colpire il cervello della linea difensiva di Aleppo. Oltre a due alti ufficiali del regime siriano, la vittima più illustre dell’operazione fu K. Porhashmi, generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane che sovraintendeva alla difesa di Aleppo, diventato il primo caduto tra i pasdaran dislocati in Siria durante l’avanzata dei ribelli. 

Le “unità speciali” a cui faceva riferimento Dalati nell’intervista e di cui facevano parte i cinque combattenti sono le al Asa’ib al Hamra, ovvero le Bande rosse – note anche come Bande della morte – dal colore della benda che avvolge il capo dei combattenti. Non si sa con esattezza quando siano state formate, ma nel corso della guerra hanno condotto decine di operazioni contro il regime. Addestrati dai combattenti ceceni e uzbeki – gli stessi che oggi fanno parte dei ranghi della nuova Siria liberata – questi uomini hanno ricevuto un addestramento specifico. “La paga è bassa, non paragonabile a quella dello Stato islamico”, raccontò nel 2019 uno di loro in un colloquio con il ricercatore britannico Aymenn Jawad al Tamimi. Il salario di ogni combattente era proporzionale al numero di mogli e figli di ciascuno e l’obiettivo era ristabilire la sharia, ma non secondo i dettami rigidi di al Qaida, con cui poi Hayat Tahrir al Sham è entrato in collisione. Secondo le testimonianze di alcuni di loro, l’addestramento delle Bande rosse li preparava alle tecniche inghimasi, un tipo di combattimento tipico del mondo arabo sunnita, ripreso dai gruppi terroristici vicini ad al Qaida e Stato islamico in Siria e Iraq. Sebbene gli inghimasi indossino delle cinture esplosive, agiscono in modo diverso dai classici attentatori suicidi. Invece di farsi detonare all’inizio dell’operazione, il loro obiettivo è massimizzare le perdite del nemico infiltrandosi tra le sue linee, combattendo fino allo stremo e attivando la cintura esplosiva solo una volta esaurite le munizioni. Un inghimasi è insomma un combattente che, sin dal momento dell’arruolamento, sa che morirà in missione. A confermare la natura dell’operazione segreta di Aleppo sono state le foto scattate ai corpi dei cinque assalitori, alcune condivise solamente sui canali Telegram, che sono integri, avvolti nelle divise del regime e sbarbati per confondersi con il nemico e permettere di infiltrarsi dietro le linee. Se nel febbraio del 2017 le Bande rosse colpirono il quartier generale dell’intelligence assadista di Homs, uccidendo il generale Hassan Daabul, considerato molto vicino a Bashar el Assad, e una trentina di ufficiali, l’attacco del 27 novembre scorso è stato il segnale del colpo di grazia al regime. 

Ma la storia delle Bande rosse potrebbe non essere finita qui. Lo scorso 20 maggio, un piccolo commando di una ventina di uomini ha lanciato un attacco inghimasi contro la base aerea russa di Latakia, sulla costa, uccidendo due soldati del Cremlino. Mai, dalla caduta del regime, gli uomini di Putin hanno affrontato una minaccia così grande in Siria. Un segnale della fragilità dei russi nell’èra post Assad e una conferma che le unità speciali di Sharaa potrebbero non avere ancora concluso la propria missione. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.