Columbia University (foto Getty)

Mondo accademico

Columbia si è arresa a Trump, Harvard resiste. Non vince nessuno

Giulio Silvano

Nei suoi primi mesi di questo secondo mandato presidenziale, il tycoon ha portato avanti una vera guerra contro il sistema educativo statunitense, specialmente con le due prestigiose università. E le manifestazioni di antisemitismo hanno permesso di forzare il grimaldello

Le università sono piene di “pazzi marxisti”, diceva Donald J Trump in campagna elettorale. Nei suoi primi mesi di questo secondo mandato presidenziale, Trump ha portato avanti una vera guerra contro il sistema educativo statunitense. I programmi di diversità, equità e inclusione sono stati tagliati; il dipartimento dell’Istruzione è stato dato in mano a una manager del wrestling televisivo, che ha promesso un taglio di 12 miliardi; le più importanti università del paese hanno visto i propri fondi congelarsi e le teste cadere. La lotta tra il presidente e le università ha trovato fin da subito terreno fertile nell’antisemitismo, di cui si è visto un esplicito incremento nei campus durante le proteste contro Israele e Netanyahu, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre del 2023. Se Trump aveva già un problema con il mondo accademico, le manifestazioni di antisemitismo hanno permesso di forzare il grimaldello.

I Queer for Palestine, i cori “from the river to the sea”, i prof insultati perché ebrei, gli studenti delle organizzazioni studentesche ebraiche presi di mira – nel 2024 i campus erano in prima pagina. “Deporteremo i radicali pro Hamas e renderemo di nuovo sicuri e patriottici i nuovi campus”, diceva Trump prima di essere rieletto. Le presidentesse di importanti università sono dovute andare a difendersi davanti alle task force governative sull’antisemitismo. Le due istituzioni protagoniste di questo scontro con il presidente sono state soprattutto Harvard e Columbia, entrambe Ivy League, scuole storiche, costosissime, da secoli fucine della classe dirigente, fondate prima della nascita degli stessi Stati Uniti. Columbia e Harvard hanno risposto in modo molto diverso al conflitto con la Casa Bianca. La prima, come ha titolato il New York Magazine, si è arresa. Harvard invece ha continuato a combattere, diventando per alcuni analisti uno dei principali fronti della resistenza al trumpismo. 

 

              

 

Katarina Amrstrong, diventata a fine estate presidente ad interim della Columbia dopo le dimissioni della sua capa per la mala gestione dell’antisemitismo nel campus, si è trovata davanti a un bivio. Il governo ha inviato agenti ad arrestare gli studenti che avevano partecipato alle proteste (tra cui Mahmoud Khalil, ancora in mano alle autorità) e ha annunciato un taglio di 400 milioni di dollari. Subito dopo ha mandato una lista di richieste all’università. Armostrong ha accettato queste richieste, tra cui la cancellazione di alcuni programmi e interferenze nei piani educativi, e poi si è dimessa. E’ stata sostituita da Claire Shipman, che ha deciso di continuare la linea Armstrong, e infatti il 21 maggio è stata accolta da rumorosi fischi alla cerimonia di consegna dei diplomi (tra cui “liberate Mahmoud!”), cori non necessariamente pro pal, ma contro la connivenza col mondo Maga. 

Di fronte a richieste simili di interferenza da parte del governo, il presidente di Harvard Alan Garber invece non ha ceduto. Trump in risposta ha immediatamente congelato oltre due miliardi di dollari di fondi. Garber ha detto che la libertà accademica non si farà spaventare da queste minacce, e ha difeso la libertà di espressione. In risposta giovedì all’università sono stati revocati i visti per gli studenti internazionali da parte del dipartimento di Sicurezza nazionale della trumpiana Kirsti Noem che ha parlato di una scuola piena di anti-americani e di filo-terroristi. Dal mondo progressista Harvard, la più ricca università del mondo, è stato visto come uno dei bastioni di resistenza a questo Trump 2.0. 

Quali delle due è stata la scelta vincente? Tenere duro o capitolare? Se riduciamo tutto alla questione dell’antisemitismo, non era necessario arrivare a questi scontri e minacce. L’ultima presidente di Harvard, Claudine Gay, si è dimessa dopo una testimonianza davanti a una commissione del Congresso istituita durante l’Amministrazione Biden, e per via delle pressioni dei finanziatori ebrei. Per quanto un problema radicato e da combattere, la questione antisemitismo nella bocca di Trump è sembrata piuttosto una scusa per un piano di attacco che era già stato promesso in campagna elettorale, e già presente nel famigerato Project 2025, per un takeover sulle università dell’élite americana. Harvard, che sta portando le minacce dello studio ovale davanti alle Corti federali, è diventata un faro di lotta alle incursioni trumpiane, quasi da sostituire la più moscia opposizione del Partito democratico. “Fai come Harvard!”, hanno urlato alcuni studenti alla nuova presidente della Columbia. 
 

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