
(foto EPA)
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L'equidistante Trump. E adesso nessun alleato dell'America si sente più al sicuro
Pur di poter dichiarare la pace (o la vittoria) il presidente mette tutti sullo stesso piano. Il caso rivelatore della “vittoria” sugli houthi
Gli alleati dell’America di Donald Trump non stanno più tranquilli, nessuno di loro. Non gli europei, che sono bistrattati in ogni senso, sui commerci, sulla difesa, sui valori liberali che i trumpiani non considerano più condivisi; non l’Ucraina, che ha subìto la più spettacolare delle mortificazioni durante il famigerato incontro nello Studio ovale tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky; non Israele, che si è visto tagliato fuori da molti negoziati che lo riguardano direttamente, mentre le comunicazioni dirette tra Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu sembrano traballanti; non l’India, che pure ha appena accolto il vicepresidente J. D. Vance ma si è visto imporre un accordo con il Pakistan mal negoziato e soprattutto mal digerito. Questi sono i casi più eclatanti, ma ce ne sono altri, il Canada, la Danimarca, per dire. Sono anche i casi in cui si vede meglio l’approccio di Trump.
Quando fa i suoi accordi, il presidente americano che vuole porre fine alle guerre a tutti i costi cerca di capire prima di tutto il suo ritorno: cosa ci guadagno, chiede ai suoi e anche nelle conversazioni pubbliche. Per questo, per capire il tornaconto dell’America, si mette in una posizione di equidistanza: è così che la Russia di Vladimir Putin non è più stata considerata come la nazione che ha invaso un paese senza ragione, ma una delle parti da mettere al tavolo, uguale all’altra, l’Ucraina, che è stata aggredita ingiustamente. Anche nello scontro tra India e Pakistan, i due paesi sono stati messi sullo stesso piano, con l’America equidistante che dice: smettete di attaccarvi. Su Israele e il negoziato aperto dall’Amministrazione Trump con la Repubblica islamica dell’Iran, non si può certo dire che l’alleato storico si senta garantito, anzi, e di certo non è coinvolto in molti degli assestamenti che i trumpiani, con goffaggini varie, stanno imponendo nella regione (tanto che due giorni fa, l’ultimo ostaggio liberato da Hamas, Edan Alexander, ha ringraziato l’Amministrazione Trump e non il governo israeliano e la prima telefonata è arrivata all’inviato trumpiano Steve Witkoff, che ha passato il telefono alla madre di Edan). L’America cerca un accordo con Teheran, regista degli attacchi a Israele, senza consultarsi troppo con Israele e, cosa più pericolosa, senza valutare parte delle eventuali conseguenze per Israele. La cosiddetta “vittoria” americana contro gli houthi, il gruppo terroristico yemenita finanziato dall’Iran che attacca le navi nel Mar Rosso e Israele, lo dimostra.
Il New York Times ieri ha pubblicato una splendida ricostruzione di questa “vittoria”, che s’intreccia anche con alcune fra le più clamorose vicissitudini dei membri dell’Amministrazione, tra cui la chat su Signal nella quale è stato invitato per errore il direttore dell’Atlantic e che riguardava proprio un bombardamento in Yemen (si è poi scoperto che di chat di questo tipo ce ne sono altre). L’Amministrazione Trump ha deciso di attaccare con forza gli houthi e, scrive il New York Times (cinque giornalisti firmano l’articolo), il presidente ha chiesto di vedere i risultati entro 30 giorni dal primo strike, due mesi fa. Ma al 31esimo giorno, non ce n’erano: gli Stati Uniti non avevano “nemmeno restaurato una superiorità aerea con gli houthi”, nonostante avessero speso un miliardo di dollari in armi e munizioni, con due Super Hornet da 67 milioni ciascuno finiti accidentalmente in mare dalla portaerei. Così Trump ne ha avuto abbastanza e al suo factotum Witkoff, che era in Oman a negoziare con gli iraniani, ha fatto sapere di fare una proposta: gli americani avrebbero smesso di bombardare gli houthi e gli houthi non avrebbero più colpito obiettivi americani nel Mar Rosso, “ma senza la richiesta di fermare gli houthi rispetto agli obiettivi che loro considerano legati a Israele”. Il 5 maggio le operazioni americane sono state messe in pausa. Il generale Michael Kurilla, a capo del Central Command, aveva proposto un piano di dieci mesi, che aveva avuto il sostegno dell’Arabia Saudita (che aveva anche fornito una lista di dodici leader houthi da colpire) ma non degli Emirati Arabi Uniti. Ma poi il generale ha avuto soltanto 30 giorni di tempo, che sono stati disastrosi, non solo per gli incidenti, ma anche per 7 droni Mq-9, ognuno del valore di 30 milioni di dollari, abbattuti dagli houthi. L’America aveva colpito più di mille obiettivi strategici, compresi molti leader houthi, ma l’operazione stava costando tantissimo e non fermava il gruppo. Così si sono introdotti gli scettici, come il vicepresidente Vance, la direttrice dell’Intelligence Tulsi Gabbard, il segretario di stato Marco Rubio e la chief of staff Susie Wiles.
Così il 5 maggio è stato deciso che l’operazione era finita, e che l’America aveva vinto: il 4 maggio un missile balistico lanciato dagli houthi aveva colpito poco distante l’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv, non intercettato dalle difese aeree israeliane. Gli houthi hanno dichiarato vittoria, pure loro: l’hashtag scelto nella loro attivissima campagna social era “Yemen defeats America”, lo Yemen batte l’America. Da quel momento Israele non è stato più sicuro di niente, come non lo è l’Ucraina, come non lo è l’Europa, come non lo è nessun alleato dell’America equidistante di Trump.