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La missione

Il grand tour di Trump nei paesi del Golfo è soprattutto business di famiglia 

Stefano Cingolani

Non solo Boeing. Il presidente americano nei paesi del Golfo persico è nel suo ambiente: molto business e poca politica  

Otto anni fa, nel maggio del 2017, Donald Trump aveva sorpreso tutti con la sua prima visita di stato all’estero: non Ottawa o Londra, come era usuale per un presidente americano appena insediato, ma Riad. Era stato accolto in pompa magna e tappeti rossi da re Bin Salman e, accompagnato dai big boss di Boeing, Lockheed, General Electric, aveva venduto aerei e sistemi di Difesa per centinaia di miliardi di dollari. Due giorni dopo era volato in Israele, poi in Italia e in Belgio. Ieri, al primo viaggio all’estero del suo secondo mandato, è atterrato di nuovo a Riad accolto con corni e tamburi dal principe Mohammed bin Salman che governa il paese con pugno di ferro e grandi progetti. Il tappeto era color lavanda, insieme a Trump, oltre al segretario di stato Marco Rubio e al segretario alla Difesa Pete Hegseth, c’era il cerchio magico dell’America first. 

 

              

 

Insieme con Trump c’erano Elon Musk, Sam Altman, Ruth Porat per Alphabet, Jensen Huang di Nvidia, Andy Jassy di Amazon, Alex Karp di Palantir. L’elenco comprende anche BlackRock, Ibm, Boeing, Coca-Cola, Northrop e molti altri, ma la novità è proprio il ruolo chiave dei “magnifici sette”. L’Arabia di Bin Salman ha ancora bisogno di cacciabombardieri, missili e mezzi per la difesa, ma soprattutto di high tech e intelligenza artificiale (lunedì il principe aveva annunciato la nascita di Humain la compagnia di stato per sviluppare le tecnologie AI) più il soft power del quale il calcio è un importante veicolo, e Trump non ha mancato di portargli Gianni Infantino, presidente della Fifa. L’altra grande differenza con il 2017 è che il presidente americano non andrà in Israele né in Europa, ma in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti. E non è un caso.

Al Ritz Carlton dove alloggia, Trump è stato accolto per la cena privata da una vera folla di uomini d’affari (ben 220). Tra loro anche John Elkann che partecipa al forum bilaterale Usa-Arabia Saudita. A ricordare l’alleanza strategica c’è una galleria di foto che si apre con l’immagine storica dell’incontro tra il re Ibn Saud e il presidente Franklin Delano Roosevelt, il 14 febbraio del 1945, a bordo dell’incrociatore Quincy ancorato a Suez. Allora l’America aveva bisogno di petrolio per vincere la guerra e il nuovo regno saudita voleva protezione. Oggi l’America ha persino troppi idrocarburi, ma i sauditi sono in grado di colpire i petrolieri a stelle e strisce innescando un gioco al ribasso dei prezzi: negli ultimi tre anni sono già scesi da 120 a 65 dollari al barile.

I giornalisti al seguito di Trump descrivono il presidente euforico – è nel suo ambiente, fa quello che vuole e sa fare: affari, nient’altro che affari. Si parla di migliaia di miliardi di dollari, ma pur con una buona tara ai roboanti annunci, il vento del deserto porterà un gran flusso di denaro alla Casa Bianca e al Big Business. Mohammed bin Salman si è impegnato a spendere seicento miliardi di dollari in quattro anni. E non c’è solo l’Arabia saudita. A Doha, seconda tappa del grand tour trumpiano, lo aspetta il “palazzo dei cieli”: il Boeing 747 dal valore di quattrocento milioni di dollari offerto dall’emiro Tamim bin Hamad al Thani. A bordo c’è una camera da letto padronale, una per gli ospiti, undici bagni, cinque cucine, ufficio privato, cinque lounge, tv in diretta e connessione internet, finiture dorate, quaranta televisori, pannelli di legno pregiato. Nei due piani dell’aereo c’è posto per novanta passeggeri. In cambio del regalo, al Thani vuole gli F-15 promessi da Washington. Ad Abu Dhabi, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed chiede gli F-35 che Joe Biden aveva bloccato, e promette di investire direttamente in America almeno 1.400 miliardi di dollari.

Sul Financial Times, Edward Luce scrive di “self-dealing”, Trump fa affari soprattutto per se stesso e ricorda che il fondo emiratino ha investito due miliardi di dollari nella World Liberty Financial, la società di criptovalute della famiglia Trump. Il business e non la politica è in cima all’agenda, scrive il Washington Post, ma la politica rientra sempre, sia pur dalla finestra. A differenza del 2017, oggi l’intero scacchiere mediorientale è in guerra, e questa volta Trump non farà scalo a Tel Aviv. Ha voltato le spalle a Israele per far soldi con gli arabi? Qual è il prezzo del gentile dono di al Thani: un’apertura verso Hamas il cui quartier generale politico era in Qatar fino al novembre scorso? La liberazione dell’ostaggio americano Edan Alexander, trattando con Hamas sulla testa di Netanyahu, è il simbolo del voltafaccia, così come la dichiarazione di voler riconoscere lo stato della Palestina è lo zuccherino offerto a Bin Salman. I media sauditi scrivono che il principe e il presidente americano sono impegnati a porre fine alla guerra di Gaza e Samuel Warberg, l’inviato del dipartimento di stato americano nella regione, lo ha confermato in un’intervista alla tv saudita Asharq. Netanyahu s’accontenta di ribadire la “stretta collaborazione” con l’ambasciatore americano e Steve Witkoff, inviato speciale per il medio oriente.