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Il commissariamento
Così Trump sta stravolgendo il Kennedy Center, oggi epicentro dell'offensiva culturale del governo
Il presidente si è messo a capo del centro e, in nome di “un ritorno all’età dell’oro nelle arti”, il board è stato sostituto con amici e parenti del mondo Maga. I prossimi cento giorni
Se Donald Trump avesse un profilo su Linkedin, l’unico social media da cui per ora si è tenuto lontano, nell’intestazione figurerebbero i due impieghi che ha in questo momento: “presidente degli Stati Uniti e presidente del John F. Kennedy Center for the Performing Arts”. Oltre a guidare per la seconda volta il paese, infatti, Trump si è scelto un secondo lavoro inaspettato, che però racconta molto su quello che ci si può attendere dall’Amministrazione nei suoi secondi cento giorni. Perché l’irruzione del presidente nel mondo dell’arte e della cultura è un assaggio di una possibile stagione di scontri su un terreno delicatissimo: quello della libertà di espressione.
La storia di ciò che è accaduto in questi mesi al Kennedy Center è il perfetto esempio di quale può essere il rischio quando si intraprende la strada – peraltro legittima – di cancellare quelli che vengono ritenuti eccessi “woke” nella cultura. C’è la possibilità che per rimuovere le presunte derive progressiste si finisca per instaurare una sostanziale censura. O quantomeno a imporre una modalità “governativa” di fare arte e cultura. Che poi è la stessa cosa. Lo dimostra il caso del centro culturale di cui adesso Trump è presidente e che lui stesso ha detto di voler allineare “alla visione di un’età dell’oro nelle arti” della sua Amministrazione.
Il Kennedy Center è in questo momento il laboratorio dell’offensiva culturale che la Casa Bianca ha già lanciato contro le università e contro network che godono di finanziamenti federali come Npr e Pbs. E’ un approccio che l’Amministrazione si appresta a estendere a varie altre realtà, come per esempio i due National Endowment dedicati alle arti (Nea) e alle discipline umanitarie (Neh), cioè le due agenzie federali che dagli anni Sessanta gestiscono fondi da destinare a piccole e grandi iniziative culturali in tutto il paese: nelle bozze del budget federale circolate nel fine settimana, entrambe sono destinate a sparire. Stessa sorte può toccare tra breve a molti musei (il gigantesco ecosistema dello Smithsonian, a Washington, è già nel mirino), alle istituzioni artistiche e ai media, quest’ultimi da colpire usando azioni legali per mega risarcimenti danni per presunte diffamazioni, come hanno già sperimentato Cbs, Abc e New York Times.
Per il Kennedy, la cattedrale della cultura americana, l’Amministrazione Trump ha invece scelto un approccio di commissariamento simile a quello utilizzato per l’agenzia di aiuti internazionali UsAid, senza bisogno di ricorrere in questo caso all’operato del Doge di Elon Musk. Stavolta non si tratta di chiudere un organismo federale, ma di modificarlo e renderlo più allineato alla narrazione dominante del mondo Maga. Per farlo, sono stati cambiati gli organi di governance ed è cominciato un capillare lavoro di licenziamenti di addetti alla programmazione culturale, al marketing, alle pubbliche relazioni (ne sono stati comunicati ventuno solo nella giornata di venerdì).
Il Kennedy Center è stato inaugurato a Washington nel 1971 sotto la presidenza del repubblicano Richard Nixon, è stato voluto negli anni Cinquanta da un altro presidente repubblicano, Dwight D. Eisenhower, e dal Congresso al completo ed è frutto di un progetto in cui mise grandi energie un presidente democratico, John F. Kennedy, al quale fu intitolato dopo il suo assassinio, per iniziativa di un altro presidente democratico, Lyndon B. Johnson e con il consenso bipartisan, di nuovo, di tutto il Congresso. E’ quindi un luogo pensato e voluto con l’idea che la cultura, di cui il centro vuole essere il punto di riferimento nazionale, deve essere libera dall’influsso della politica. Il che non significa certo che dal 1971 a oggi questo spazio nazionale per le arti sia stato realmente bipartisan o super partes. E’ innegabile che il pensiero progressista abbia dominato soprattutto negli ultimi decenni nel decidere la programmazione da proporre nell’elegante edificio affacciato sulle acque del Potomac a Foggy Bottom, tra il dipartimento di stato e il complesso del Watergate. Nelle sale da concerti dove si esibiscono la National Symphony Orchestra diretta da Gianandrea Noseda e la Washington National Opera, negli spazi tra i marmi di Carrara donati dal governo italiano, ogni anno vengono presentate oltre duemila performance di arte varia, molto spesso orientate a sinistra. E’ una roccaforte della capitale dove si è sempre guardato con sospetto a Trump e che il presidente nel primo mandato ha gestito ignorandola: aveva inserito nel board l’amico diplomatico italoamericano Paolo Zampolli, ma a differenza dei predecessori non ha mai messo piede al Kennedy Center.
Stavolta, non appena cominciato il secondo giro alla Casa Bianca, Trump ha messo subito nel mirino il centro per le arti e ha dato vita a un blitz sorprendente. A febbraio ha fatto fuori l’intero board del Kennedy, presieduto da David Rubenstein, accusandolo di “non condividere la nostra visione per una golden age delle arti e della cultura”. Non è ancora chiaro se la Casa Bianca avesse il mandato legale per agire in modo così drastico e la mossa ha dato il via a una serie di azioni giudiziarie, ma per ora Trump ha vinto. “Abbiamo preso il controllo del Kennedy Center – ha detto il presidente – perché è un gioiello americano e deve far brillare sul palco le stelle più luminose della nostra nazione”. Sono seguiti annunci di nuovi programmi in cui compaiono vecchie glorie del country, artisti patriottici e nazionalisti e il rapper filo trumpiano Kid Rock.
Il nuovo board è l’incarnazione dell’offensiva Maga sul Kennedy Center. Vi figurano, tra le altre, Usha Vance, moglie del vicepresidente J. D. Vance, Susie Wiles, capo dello staff della Casa Bianca e sua mamma Cheri Summerall, un paio di altri pezzi grossi della Casa Bianca come Dan Scavino e Sergio Gor, Allison Lutnick, moglie del ministro del Tesoro, e alcuni donatori della campagna elettorale di Trump. Come chairman è stato eletto per la prima volta il presidente degli Stati Uniti, che ha delegato l’operatività a un altro fedelissimo, Richard Grenell, nominato direttore esecutivo: non è chiaro quali siano le sue competenze in campo artistico, visto che il suo precedente incarico era stato quello di direttore naAionale dell’intelligence nella prima amministrazione Trump.
Sono seguiti i tagli negli organici e una prima riduzione della programmazione. E’ presto per capire quale sarà il futuro della maggiore istituzione culturale americana collegata al governo federale, il palcoscenico sul quale erano di casa Leonard Bernstein, Ella Fitzgerald e Frank Sinatra. Ma sul Kennedy Center si gioca una partita ben più ampia di quello che è il cartellone degli spettacoli presentati nelle sale da concerti sulle rive del Potomac.