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L'editoriale dell'elefantino
La versione di Putin sul 9 maggio ha invertito il senso della guerra patriottica
La vittoria sul nazismo fu un giorno di affermazione e vittoria della libertà, ma la narrazione sacra di Mosca equivale a strage sistematica, tirannia e teoria dello spazio vitale a parti rovesciate
Putin festeggia con la grande parata e con i missili su Kyiv la vittoria sul nazismo, si incontra con il gigante cinese, i due, in compagnia di ceceni nordcoreani e bielorussi, si fanno profeti e capi del mondo in rivolta contro l’unipolarismo e l’egemonismo dell’occidente morente, che per il tramite del suo immobiliarista-capo è appena stato sbeffeggiato sui due fronti della pace finta in Ucraina e del “piccolo errore” (Trump) dei dazi doganali, ora in via di correzione mediante negoziato. La data è il 9 maggio, giornata eminentemente russa di vittoria, quella stessa vittoria che nel morente occidente si festeggia l’8 maggio, perché di rese il Terzo Reich, a Hitler già morto, ne ha offerte due a ventiquattr’ore l’una dall’altra, la prima agli angloamericani sull’orizzonte del fiume Elba e di Amburgo e la seconda al maresciallo Stalin sulle rovine fumanti di Berlino liberata all’ombra della bandiera sovietica sul Reichstag distrutto. La grande guerra patriottica è narrazione sacra, mito, trasfigurazione.
Il Giorno della vittoria fu trascurato da Stalin, che abolì la festività preferendole le cerimonie della rivoluzione d’Ottobre 1917, e riemerse a metà dei Sessanta, con ritmo quinquennale, poi con Breznev fu la parata militare. E le date fanno scherzi imperdonabili. Il 9 maggio del 1950 è il giorno del discorso di Robert Schuman che diede avvio alla costruzione europea, e oggi è celebrato come la giornata dell’Europa, che dopo la fine della Guerra fredda e dopo l’avvento del governo Maga è diventata il nemico principale della Russia di Putin. Quasi trenta milioni di morti e un incalcolabile ammasso di eroismo nazionale e popolare, patriottico, sorreggono il mito e forse in qualche modo lo giustificano, va da sé.
Di quel mito il mondo d’oggi è figlio naturale e almeno in parte legittimo. Chi abbia ascoltato anche solo una volta la Settima di Shostakovich, la sinfonia di Leningrado, sa che il tema dell’invasione, la progressione a tamburo rullante orchestrata per travolgere cuore e viscere nel delirio della guerra, è irresistibile. Ma il 9 maggio di Putin ha invertito il proprio messaggio originale, il suo tema non è più la resistenza all’invasione, il dramma dell’assedio, il riscatto esistenziale di popolo e nazione nel sacrificio, è all’opposto espansionismo, prepotenza, aggressione, manipolazione, strage sistematica, tirannia, revanscismo e teoria dello spazio vitale a parti rovesciate. Arriva il momento buono, se si voglia capire il brandello di storia che avvolge la narrazione sacra e la profana esibizione di propaganda e stellette, per leggere o rileggere “Vita e destino”, il grande resoconto della guerra patriottica e dell’universo totalitario cui si intreccia scritto da Vasilij Grossman, il Tolstoj del secolo scorso.
Grossman ha scorticato la mitologizzazione dello stalinismo, alla luce della sua testimonianza letteraria il putinismo è una variante decisamente minore, caricaturale, grottesca, di un’epoca in cui sofferenza, guerra, pace, disperazione, miseria e ideologia da Stalingrado al gulag ai lager all’Accademia di Mosca alla Lubianka potevano essere raccontate e descritte come tragici colori del totalitarismo di ogni specie. Il 9 maggio fu un giorno di affermazione e vittoria della libertà, ma non come l’8 maggio lo fu per l’occidente morente. La narrazione sacra di Putin è diventata, come sa chi ha letto “Vita e destino”, la versione sacrilega e omicida di un mito tramontato.