Ansa

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan

Congresso Pkk: il gruppo verso lo scioglimento

Stefano Mazzola

La svolta storica arriva dopo decenni di conflitto e apre a nuovi scenari politici tra Turchia e comunità curda. Resta da vedere se la promessa di disarmo porterà a un accordo duraturo o a un'altra fase di stallo

Si è riunito il congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo fondato nel 1978 da Abdullah Ocalan. Nato in opposizione alla repressione delle identità e dei diritti politici e sociali della minoranza curda, che in Turchia rappresenta circa un quarto della popolazione, il Pkk è considerato un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. In un comunicato diffuso nella giornata di oggi, si legge che il dodicesimo congresso dell’organizzazione, convocato in segreto tra il 5 e il 7 maggio nel nord dell’Iraq, ha preso una “decisione storica riguardante le attività del Pkk”. Il riferimento è alla chiamata dello scorso 27 febbraio, in cui lo stesso Ocalan aveva riconosciuto esauriti i presupposti politici e ideologici che per quarant’anni hanno portato il PKK a muovere guerra contro lo stato turco.

Sempre nel comunicato, il Pkk annuncia che presto condividerà pubblicamente le decisioni assunte nell’occasione, ovvero la probabile dissoluzione del gruppo e l’abbandono della lotta armata. La decisione arriva dopo mesi di attesa. Si inserisce in un nuovo tentativo di pacificazione tra il gruppo e il governo turco. Lanciato lo scorso autunno da Devlet Bahceli, leader del partito nazionalista Mhp, il processo di pace attualmente in corso si propone l’obiettivo di risolvere la questione curda e voltare pagina dopo quasi mezzo secolo di guerra. “Questo congresso era necessario perché in Turchia si potesse arrivare alla pace – ha dichiarato alle agenzie stampa locali Pervin Buldan, co-presidente del Partito filocurdo Dem – Verranno compiuti passi storici. C'è un’alta probabilità che le aspettative vengano soddisfatte”.

Sebbene sia già successo in passato che il Pkk annunciasse la fine della guerra o il proprio scioglimento, solo per poi riprendere a combattere a breve distanza di tempo, mai nella storia la Turchia e il Pkk sono stati così vicini alla risoluzione del conflitto. Oggi infatti, il sudest della Turchia, a maggioranza curda, appare pacificato, con i guerriglieri che da tempo si sono ritirati oltre confine, spostando il conflitto nei territori a maggioranza curda in Siria e Iraq. Anche qui però, Ankara sfrutta i droni all’avanguardia prodotti dal proprio comparto bellico per colpire le postazioni del gruppo, minandone le capacità di riorganizzazione. Tuttavia, la caduta di Bashar al-Assad e la salita al potere di Ahmad al-Sharaa ha imposto alla Turchia l’urgenza di favorire il raggiungimento di un nuovo equilibrio politico e territoriale in Siria, dove le milizie filocurde delle Ypg – alleate degli Stati Uniti ma considerate dalla Turchia un’emanazione del Pkk – controllano un terzo del territorio. Per Erdogan, la dissoluzione del Pkk è dunque un passaggio cruciale per poter procedere alla normalizzazione dei rapporti con i curdi siriani, tenendo così il Rojava lontano dai tentativi di destabilizzazione da parte di Israele e Iran.

Per il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan, la dissoluzione del Pkk è anche un importante capitale politico da spendere in ottica elettorale con le componenti nazionaliste del suo elettorato. Sin dall’inizio del processo, il governo ha infatti imposto lo scioglimento dell’organizzazione come prerequisito per l’avvio di qualsiasi discussione relativa alle possibili contropartite, mantenendo una posizione di forza al tavolo negoziale. Per capire se si arriverà davvero a una risoluzione della questione curda, sarà importante vedere adesso se, e quali, concessioni verranno fatte ai curdi in quello che, fino a questo momento, il governo ha voluto definire un processo di “resa incondizionata”. Senza dimenticare che Erdogan ha bisogno del sostegno esterno del partito filocurdo in parlamento per convocare elezioni anticipate o, in alternativa, portare a referendum una riforma della costituzione che gli permetta di ricandidarsi nonostante abbia esaurito il limite dei due mandati. Il processo si muove dunque su molteplici livelli. Il vero nodo sarà capire se fronti diversi come diplomazia, sicurezza e consenso interno potranno convergere in un fronte unico, o se resteranno al servizio di interessi divergenti.