Netanyahu fa sul serio quando dice di occupare Gaza?

Micol Flammini

Tattica negoziale o prossimo passo. Quattro elementi da studiare per capire la direzione di Israele. L'attacco in Yemen e le parole di Trump sugli houthi

Israele è un popolo di soldati e dopo il 7 ottobre,  per quella che fu, dalla guerra del Kippur, la più grande chiamata alle armi del paese, si presentò nelle basi militari il 120 per cento dei riservisti. Oltre ai convocati, arrivarono altri volontari, alcuni vennero respinti perché non c’erano abbastanza armi. Oggi, dopo che il governo ha annunciato che la guerra dentro alla Striscia di Gaza entrerà in una nuova fase, il numero di riservisti pronti a presentarsi è sceso al 60 per cento. I numeri raccontano quanto il paese si stia arrovellando e il fatto che non condivida una guerra  che porti all’occupazione della Striscia non vuol dire che gli israeliani non credano più che sconfiggere Hamas  sia fondamentale, ma vogliono prima che il governo si occupi dei cinquantanove ostaggi prigionieri nella Striscia. 

 

Israele non crede più che la guerra possa portare al raggiungimento dei due obiettivi – sradicare Hamas e liberare i rapiti – pensa che le cose vadano fatte con ordine e l’ordine non è quello scelto dal governo attraverso l’operazione massiccia che è stata annunciata, ma che forse non è altro che un proclama da parte del premier Benjamin Netanyahu. “Non sono sicuro che Netanyahu sia serio, parlare di una guerra più vasta e di occupazione può servire come leva contro Hamas”, dice Michael Milshtein, esperto del Moshe Dayan Center e profondo conoscitore della Striscia di Gaza. Il fatto che il primo ministro israeliano abbia dato una tempistica alla possibile nuova fase e voglia attendere il viaggio di Donald Trump in medio oriente prima di agire  è un altro indicatore del fatto che l’annuncio faccia parte di un negoziato che anche il presidente americano dovrà condurre nei suoi incontri con i sauditi, gli emiratini e i qatarini. Alcuni elementi suggeriscono che l’obiettivo sia negoziare e non occupare e  il primo da osservare è proprio la forza dell’esercito: i riservisti sono i primi a non credere che la guerra dentro alla Striscia serva a liberare gli ostaggi, anzi, li metterebbe in pericolo e non sono disposti a servire per questa missione. Non tutti condividono questa idea, secondo i sostenitori di una  fase di occupazione nella Striscia, Hamas negozia se sente la pressione. Si usa spesso un esempio nel campo di chi crede ancora che i due obiettivi della guerra siano conciliabili: per liberare il soldato Gilad Shalit ci vollero cinque anni, proprio perché non ci furono interventi militari.  

 

Prima di iniziare una nuova campagna dentro Gaza, Netanyahu deve tenere presenti due variabili: la posizione americana e la società israeliana. Israele potrà estendere l’operazione dentro Gaza   se Donald Trump è d’accordo, “e non si può escludere che non lo sia”, suggerisce Milshtein, che però pone l’accento sulla seconda variabile che il governo non può ignorare: “La crisi dentro alla nostra società è profonda e se Tsahal inizia questa operazione, il governo dovrà dare delle risposte. Gli israeliani hanno dimostrato di essere pronti a combattere, a unirsi, a mettere in secondo piano le tensioni quando c’è la necessità. Adesso non sono pronti a una guerra che prevede il sacrificio degli ostaggi e di nuovi soldati”. Israele controlla circa il 40 per cento del territorio della Striscia, ma non le città, dove invece Hamas comanda, controlla la popolazione e la distribuzione degli aiuti umanitari. Per eliminare il gruppo, Tsahal deve arrivare nel territorio di Hamas e “Gaza rischia di trasformarsi nel nostro Iraq, con una situazione  di guerriglia.  Siamo sicuri che il sacrificio servirebbe davvero a stroncare una volta per tutte il gruppo?”. Tsahal controlla il territorio, ma non le persone e “il governo deve spiegare agli israeliani come intende trovare le risorse economiche, politiche e sociali per rimanere dentro a un territorio popolato da persone che odiano Israele, per gestire i palestinesi che preferiranno rimanere e non andarsene. Deve spiegare come intende affrontare i paesi arabi, che non concordano con l’occupazione”. Milshtein sottolinea anche un altro punto: “A parte il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che dice che Israele resterà per sempre a Gaza, nessuno ha chiarito cosa vuol dire occupazione. Se davvero Netanyahu vuole restare a Gaza, allora tanti  israeliani che  lo vedono come un risultato molto lontano dagli obiettivi della guerra”. Lo dicono anche i sondaggi. Secondo un’indagine del canale Channel 13, il 46 per cento degli israeliani si oppone alla nuova operazione militare. Il 57 pensa che metta a rischio gli ostaggi. Il 53 per  cento  ritiene che Netanyahu lo faccia per motivi politici. 

 

Alcuni generali sono dell’idea che sia questo il momento di entrare a Gaza e controllarla, perché Israele ha lavorato bene sugli altri lati ed eliminato altre minacce. Ma se Tsahal mette tutte le sue forze dentro Gaza, scopre gli altri confini  del paese ed è su questo punto che si presenta una nuova incognita: “Dobbiamo rimanere concentrati sull’Iran. Gli alleati hanno mostrato che non intendono aiutarci a gestire il problema”, dice Milshtein. Ieri Israele ha bombardato di nuovo lo Yemen, distruggendo in quindici minuti l’aeroporto di Sanaa controllato dagli houthi. Gli ultimi attacchi sono stati coordinati con gli americani. Ieri Trump  ha detto trionfante che gli Stati Uniti non effettueranno più bombardamenti contro il gruppo sciita in Yemen, uno dei gruppi armati e nutriti da Teheran, perché “si sono arresi, non vogliono più combattere”. Gli houthi hanno smentito le parole del presidente americano. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)