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La spirale recessiva
Il tempo stringe. Trump ascolti i segnali lanciati dall'economia americana e ritiri i dazi
L'America si trova di fronte a una crescente probabilità di recessione. Nonostante il supporto della Fed, la situazione finanziaria e i mercati indicano un inasprimento dei rischi, mentre le misure fiscali di stimolo richiederanno tempo per produrre effetti positivi
Dopo i primi cento giorni della seconda Amministrazione Trump, la principale domanda che ci si pone è se, e quando, arriverà la recessione negli Stati Uniti. La probabilità aumenta con la pubblicazione di ogni nuovo dato statistico. L’ultimo, che segnala una contrazione del prodotto lordo dello 0,3 per cento nel primo trimestre appena concluso è da prendere con cautela, a causa dell’aumento significativo delle importazioni nei mesi scorsi per anticipare l’effetto dei dazi scattati all’inizio di aprile.
Non ci sono tuttavia motivi per aspettarsi un miglioramento nei prossimi mesi. Gli indicatori, come quello sulla fiducia dei consumatori, mostrano che l’economia è già in forte rallentamento. L’aumento dei prezzi dei prodotti importati che scatterà con i nuovi dazi inciderà inevitabilmente sul potere d’acquisto delle famiglie, rallentando i consumi. L’inflazione rimane elevata, il che impedisce alla Riserva federale di tagliare i tassi d’interesse. Ciò incide sul costo dei mutui, che è sostenibile fin quando l’occupazione rimane sostenuta. Tuttavia, ai primi segnali di rialzo della disoccupazione, aumenta il rischio di inadempienza da parte dei debitori nei confronti delle banche, le quali a loro volta tenderanno a restringere il credito, accentuando il rallentamento.
Nella situazione attuale, la principale difficoltà nel fare previsioni deriva dallo choc senza precedenti di politica economica impresso all’economia americana, sotto forma dei dazi, e dall’incertezza sull’entità delle azioni che verranno effettivamente adottate. La decisione di sospendere le misure per 90 giorni, per alcuni paesi e per alcuni prodotti, in attesa di negoziati che non sono ancora partiti, genera ulteriore incertezza con effetti imprevedibili sui comportamenti delle imprese e delle famiglie.
Peraltro, la pesante azione di “snellimento” dell’amministrazione pubblica condotta dal cosiddetto Doge, il dipartimento per l’Efficienza del governo, contribuisce a diffondere un senso di precarietà in ampi settori della società statunitense, con inevitabili effetti sui consumi, che non sarà facilmente superabile, nonostante la recente decisione di Elon Musk di ridurre il suo impegno.
Il Fondo monetario internazionale ha appena rivisto al ribasso la crescita americana per quest’anno, di quasi un punto rispetto alle stime dell’inizio dell’anno, ma per ora non prevede una recessione. Queste valutazioni sembrano tuttavia già superate. Secondo le indicazioni dei principali centri di ricerca privati, la probabilità di una recessione ha ormai superato il 50 per cento. L’evoluzione dei mercati finanziari sembra in linea con tale pessimismo. Il tasso di cambio del dollaro si è deprezzato di quasi il 10 per cento nei confronti dell’euro in meno di un mese. Più rivelatrice è l’indicazione che viene dalla curva dei rendimenti americana, che mostra un tasso d’interesse a breve termine nettamente superiore ai tassi sui titoli di stato con scadenza a 3-5 anni. Rispetto alla fine di gennaio il tasso d’interesse a breve termine – sulle scadenze fra 3 e 6 mesi – è rimasto sostanzialmente immutato, intorno al 4,3 per cento, mentre il tasso a 5 anni è sceso dal 4,4 al 3,7 per cento, segnalando aspettative di rallentamento nei prossimi anni. Una curva dei rendimenti inclinata negativamente riflette tipicamente anticipazioni di recessione, a meno di una rapida inversione della politica monetaria.
Le preoccupazioni sull’attuale situazione economica vengono accentuate dall’assenza di fattori che possono contrastare il progressivo ma continuo deterioramento delle aspettative. I tagli fiscali per stimolare la domanda interna richiederanno tempo prima di essere ratificati dal Congresso. La perdita di consenso politico e il deterioramento della finanza pubblica li ha resi peraltro più a rischio. Nel suo primo mandato, otto anni fa, Trump aveva seguito un ordine diverso nell’implementazione delle sue politiche economiche, cominciando con i tagli fiscali, il cui effetto di stimolo immediato aveva consentito di assorbire l’impatto successivo dei dazi sull’economia americana. L’ordine seguito questa volta è stato opposto, forse per la smania di imporre i dazi e colpire il resto del mondo, ritenuto responsabile di tutti i problemi che affliggono l’economia americana. Ciò ha impresso costi immediati all’economia americana prima che si concretizzi la prospettiva dello stimolo fiscale. La situazione del debito pubblico americano è peraltro molto più critica di otto anni fa e i tassi d’interesse non sono più a zero come allora. A questo punto, la soluzione più razionale per uscire dalla spirale recessiva sarebbe una inversione a 180 gradi, con il ritiro delle misure restrittive sul commercio decise e annunciate fin qui. Una decisione non facile per chi governa un paese. Meglio però farlo di propria iniziativa, come fece Mitterand nel 1983, piuttosto che sotto la pressione dei mercati finanziari, come successe a Liz Truss nel 2022.