
Cento di questi cento giorni di Trump
Ha ridato energia a ciò che voleva distruggere, ricordandoci cosa non siamo disposti a perdere. Il trumpismo è una tragedia, certo, ma anche un trionfo di opportunità. La scrematura delle scemenze imposte da Trump. Catalogo
Se fossimo magnificamente diligenti, orgogliosamente responsabili e fieramente seriosi, di fronte ai primi drammatici cento giorni di presidenza di Donald Trump non potremmo che consegnarvi un articolo carico di preoccupazione, di apprensione, di angoscia per la presenza di un’America, un tempo culla dei nostri sogni, divenuta improvvisamente l’epicentro pericoloso di una rivoluzione illiberale. Se fossimo magnificamente diligenti, orgogliosamente responsabili e fieramente seriosi, dovremmo offrirvi un articolo ingessato per mostrarvi con chiarezza la parte del bicchiere mezzo vuoto, la parte in cui cioè nel bilancio dei primi cento giorni di Trump non ci si può non concentrare, come stanno facendo in America anche i repubblicani con la testa sulle spalle, sulle oscenità commesse dal presidente americano sul tema del non rispetto del mercato, sul tema del non rispetto degli alleati, sul tema del non rispetto della globalizzazione, sul tema del non rispetto dell’Ucraina, sul tema dell’eccessivo rispetto mostrato invece di fronte a un mostro di nome Vladimir Putin.
Siccome però essere insieme diligenti, responsabili e seriosi significa spesso essere prevedibili, per ragionare attorno ai primi cento giorni di Donald Trump, e augurarci in modo poco diligente e poco responsabile cento di questi primi cento giorni, vale la pena forse partire da quello che è successo ieri in Canada, dove il Partito liberale, una specie di meravigliosa creatura terzopolista capace di mettere insieme tutte le anime centriste del paese, è riuscito, guidato dal Mario Draghi canadese, l’ex governatore della Banca centrale canadese ed ex governatore della Banca centrale del Regno Unito, Mark Carney, a compiere una rimonta miracolosa e a vincere le elezioni grazie a un imprevisto alleato di nome Donald Trump. Carney è un personaggio formidabile. Ha vinto le elezioni proponendo una linea alternativa a quella di Trump. Ha vinto le elezioni promettendo di ridurre le barriere commerciali interne al Canada, promettendo di creare nuove alleanze commerciali con l’Europa e con l’Asia, promettendo di ridurre la dipendenza del Canada verso gli Stati Uniti. Ha vinto le elezioni, Carney, promettendo di fare tutto il possibile per “superare lo choc del tradimento americano”, e mettendo a terra una questione fondamentale, che non riguarda solo Carney ma riguarda tutto ciò che Trump, in questi primi cento giorni, ha sfidato con forza.
“Il presidente Trump sta cercando di spezzarci per poterci possedere. È arrivato il momento di prenderci cura di noi stessi e, soprattutto, di prenderci cura l’uno dell’altro”. I primi cento giorni di Trump, da questo punto di vista, dalla prospettiva cioè di chi prova a guardare il bicchiere mezzo pieno e non solo mezzo vuoto, sono stati un trionfo delle opportunità, delle rinascite e delle resilienze. E il caso dei liberali canadesi non è l’unico in cui ciò che Trump ha sfidato si è rivitalizzato grazie all’aggressione trumpiana.
Il nostro ottimismo irresponsabile, ovviamente, non ci porta a pensare che Trump potrebbe rivitalizzare anche i liberali europei, e quelli italiani, anche alla provvidenza vi è un limite, anche se il trumpismo ha avuto l’effetto imprevedibile e provvidenziale di dare un tocco di vitalità in più in giro per l’Europa a molte leadership competenti e credibili, come quella di Keir Starmer, come quella di Emmanuel Macron, come quella di Friedrich Merz, e alla fine anche a quella di Giorgia Meloni. Ma se si sceglie di osservare con un occhio non pigro i molti fronti che Trump ha aperto in giro per il mondo, si avrà la netta impressione che il presidente americano è riuscito a ridare energia a tutto ciò a cui voleva togliere ossigeno.
Con Trump, in cento giorni, ha ritrovato forza la globalizzazione, come reazione al protezionismo del presidente americano, e insieme a essa hanno ritrovato centralità l’Europa, come unico continente in grado di arginare l’onda d’urto del populismo trumpiano. Grazie a Trump, il sovranismo europeista è tornato a essere un asset centrale per combattere il populismo nazionalista. Grazie a Trump, la diffusione del nazionalismo, in giro per il mondo, è tornata a essere considerata come un elemento pericoloso per la tutela dei singoli interessi nazionali, almeno di quei paesi che non considerano l’apertura dei mercati come una minaccia alla propria sovranità. Grazie a Trump, le borse europee sono tornate a essere più attrattive rispetto a quelle americane. Grazie a Trump, l’euro si ritrova per la prima volta nella sua storia a essere considerato come una moneta più stabile e affidabile del dollaro. Grazie a Trump, l’indipendenza delle banche centrali, dopo aver visto cosa è successo ai mercati americani in seguito al tentativo di Trump di licenziare il capo della Federal Reserve, è tornata a essere considerata come un dogma inviolabile. Grazie a Trump, l’Europa è tornata a parlare con più intensità e fiducia con il Regno Unito, per la prima volta dopo la stagione della Brexit.
Grazie a Trump, l’Europa è stata costretta a discutere, seriamente, di difesa militare, di riarmo, di protezione dei suoi confini. Grazie a Trump, grazie alla minaccia dei dazi, l’Europa è stata costretta a rimettere in discussione, finalmente, il dogmatismo del Green deal, l’ambientalismo ideologico, le politiche climatiche autolesionistiche. Grazie a Trump, infine, i vecchi alleati dell’America, per proteggersi dalla concorrenza americana, sono stati costretti a ragionare, anche se tra il ragionare e l’agire c’è di mezzo il mare, su cosa vuol dire essere più attrattivi, su cosa vuol dire essere più efficienti, su cosa vuol dire occuparsi non solo dei dazi esterni da ricalibrare ma anche di cosa sono gli autodazi interni da rimuovere.
Il bicchiere mezzo pieno, naturalmente, non si può osservare quando si ragiona di Ucraina. Trump, lo sapete, aveva detto che sarebbe stato in grado di fermare la guerra in Ucraina in 24 ore, ne sono passate circa 2.400, di ore, dal suo arrivo alla Casa Bianca, e ancora Trump non ha capito che per fermare la guerra bisogna fermare Putin, non Zelensky. Ma la scrematura delle scemenze imposte da Trump in giro per il mondo a buona parte dei soggetti e degli obiettivi che ha provato a sfidare è un elemento sufficiente per farci dire, in modo forse irresponsabile, cento di questi cento giorni di trumpismo, cento di questi cento giorni in cui gli avversari di Trump hanno trovato un modo per rivitalizzarsi, cercando di costruire nuove alleanze e nuovi equilibri per prendersi cura di tutto ciò che Trump ha provato a distruggere.