
Ansa
l'autobiografia
Le avventure (e i consigli) di Boris Johnson, esuberante e indulgente
Bojo ripercorre la sua vicenda politica, tra scandali e successi, veri e presunti. Dall'esperienza da sindaco a quella di primo ministro. Tornerà? “Non lo so. Più sto lontano da Westminster e più sono convinto che uno si deve impegnare solo se pensa di poter essere utile”. Unleashed, il memoir in uscita oggi nelle librerie britanniche
La versione di Boris poteva intitolarsi anche Tutto merito mio, oppure Non vi scordate di me, e invece il memoir, in uscita oggi nelle librerie britanniche, si chiama Unleashed, sguinzagliato, come se l’uomo ne avesse mai avuto uno, di guinzaglio. Il concetto è lo stesso: in questa rilettura a tutto campo della vita politica dell’ex primo ministro, che di sé stesso diventa eroe, cantore, storico, giudice e avvocato, fa raramente sfoggio di sé quel senno di poi in grado di conferire gravitas anche al più autocelebrativo dei racconti. E quindi la grandezza tanto inseguita, fin dalla foto di copertina singolarmente seria e pensosa, finisce per mancare quasi del tutto nelle pagine dell’autobiografia.
Le settecento pagine e passa si aprono con i sassolini più insidiosi, quelli da togliere subito di mezzo anche se non sono propriamente materiale da epica classica, come la decisione della Corte suprema di dichiarare “illegale” la sospensione del Parlamento per cinque settimane da parte dell’allora premier, pronto a tutto per superare lo stallo in cui il paese era finito per via di una Brexit vissuta con imbarazzo e di una Westminster ridotta a un gigantesco “fatberg di ritardi a bloccare le tubature del paese”. Dettagli noiosi, certo, ma che servono per rinverdire il mito dell’underdog, del simpaticissimo premier buffone con tutto l’establishment contro sebbene sia il più posh di tutti, quello nato talmente bene e finito a Eton, eppure con il pallino – dice lui – del “levelling up”, dell’aiutare la società a raggiungere una parità al rialzo attraverso opportunità e un po’ di quella disciplina che lui, stando al racconto che fa di sé, non ha mai avuto. La portata principale di Unleashed è una Brexit che l’autore continua a venderci come se fosse una buonissima idea e un Covid che continua a ripercorrere, un po’ perché stava per ucciderlo, un po’ perché sui suoi fatali tentennamenti nella primissima fase è stato fatto addirittura un film-denuncia per la tv con Kenneth Branagh. Ma Boris Johnson delle vittime e degli effetti collaterali non parla mai, e la struttura del libro sembra seguire una per una le polemiche che hanno attraversato i suoi anni in politica, dal periodo felice da sindaco – “ruolo quasi monarchico” – di Londra, città dell’anima che ha ereditato dalle mani di Ken Livingstone, Red Ken, politico più che discutibile che però ha avuto il coraggio di rivoluzionare i trasporti in città, aprendo la strada a quello che a più riprese Boris indica come il migliore volano per la crescita e la mobilità sociale, ossia le infrastrutture, la possibilità di portare i cittadini verso i buoni lavori dei quartieri centrali o finanziari dalle campagne o dalle periferie, per non parlare della Boris Bike, le biciclettone pubbliche pagate da Barclays con cui i londinesi hanno preso a muoversi da una parte all’altra della città. E pazienza se costano tanto, se spesso i preventivi iniziali finiscono per essere raddoppiati o peggio, un’infrastruttura come Crossrail, che ora è la Elizabeth Line, cambia sempre lo scenario e lo cambia in meglio. Peccato che il progetto dell’alta velocità HS2 sia stato abbandonato dal suo stesso partito per i costi eccessivi.
Davanti a una certa vacuità del libro, impermeabile a tutto quello che è successo dopo la fine politica di Boris, viene da chiedersi se non sia un manifesto politico, un modo per cercare di riproporsi all’elettorato a due anni di distanza per vedere se c’è ancora voglia di esuberanza e grandi idee. Lui dice di no, sembra trovare abbastanza soddisfazione a dire che i Tory non hanno saputo rivendicare la sua eredità positiva – la Brexit fatta, come promesso, la campagna vaccinale di successo – e l’hanno archiviato, messo via con un certo imbarazzo. Eppure per lui l’uscita dall’Ue era un ideale nobile, aveva a che fare con la sovranità e l’indipendenza, la capacità di risvegliare una forza lavoro nazionale troppo spesso lasciata ai margini e sostituita con stranieri, con la capacità di far brillare il Regno Unito sullo scacchiere internazionale con tutta la grandezza del caso: peccato che all’estero questo progetto sia piaciuto solo a Donald Trump e che la classe politica britannica abbia rapidamente cambiato discorso.
Se i capitoli su Boris sindaco e sull’Ucraina possono far sospirare – quanta energia, che slancio – nel resto il respiro manca, tutte le avventure dell’ultimo decennio sono riscritte per mettere lui al centro, eroe circondato da amici – pochi, a partire dal cagnolino Dilyn – e da traditori, categoria nella quale torreggia Dominic Cummings. Ci fa sapere cosa pensa del medio oriente e della dichiarazione Balfour, lui discendente di ebrei e quindi sensibilissimo alla causa, e convinto che gli accordi di Abramo siano l’unica strada percorribile, ci racconta i suoi incontri con i grandi della terra, ha parole di ammirazione per il cortesissimo Paolo Gentiloni e di stizza per quello che Federica Mogherini ha finito col rappresentare ai suoi occhi, “l’ape regina, il funzionario di rango”, non eletta eppure in condizione di parlare a nome degli altri. “Pensavo che lei, o la sua funzione, non dovesse esistere” e “lei pure sperava che non esistessi”, scrive Boris.
Le parti più belle riguardano gli incontri con Elisabetta II, incoraggiante e piena di sapienza, capace di sgommare a 93 anni sulle colline di Balmoral e di tirare fuori un tupperware con la vinaigrette al chiaro di luna, o di dare un consiglio eccellente: evita l’amarezza, non serve a niente. Pure lui è in vena di consigli, addirittura di un decalogo su come avere successo al Question Time del mercoledì, fingendosi insicuro e bisognoso di sostegno. La sua formula politica non è ideologica ma è boris-centrica, il finale aperto: cerca di incoraggiare i giovani a entrare in politica, o forse cerca di incoraggiare sé stesso a riscendere in campo. Tornerà mai ai Comuni? “Non lo so”, scrive, anche perché “più sto lontano da Westminster e più sono convinto che uno si deve impegnare solo se pensa di poter essere utile”.
Cristina Marconi



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