Un sostegno indefesso

Boris Johnson e l'innocenza dell'Ucraina

Paola Peduzzi

Nel suo memoir, l'ex premier britannico trova i termini esatti per descrivere l'aggressione russa: l'Ucraina era innocente ed è stata massacrata. Ma il "filtro russo" con cui guardiamo il conflitto ha condizionato anche il nostro sostegno alla difesa degli aggrediti. Con un'enorme differenza tra il conservatorismo liberale e occidentale di Johnson e quello di altre destre, trumpiane e orbaniane

“E’ successo, Putin sta invadendo l’Ucraina”, dice il consigliere per la Sicurezza nazionale a Boris Johnson, alle 4 di mattina del 24 febbraio del 2022: “Risposi con imprecazioni anglosassoni per esprimere il mio disprezzo totale nei confronti dell’invasore”, scrive l’ex premier britannico nel suo memoir, “Unleashed”, da oggi nelle librerie del Regno Unito. “I carri armati stavano attraversando i confini mentre eravamo al telefono – continua – C’erano notizie di sparatorie e bombardamenti nelle città ucraine. Il succo era che si stava scatenando l’inferno – assolutamente senza nessuna buona ragione – in una democrazia europea del tutto pacifica e innocente”.

Boris Johnson è forse il leader occidentale che più ha sostenuto e sostiene la necessità, e l’urgenza, della vittoria dell’Ucraina contro la Russia: lo fa per gli ucraini, che non hanno altra alternativa per continuare a esistere come popolo e come nazione, e lo fa per tutto l’occidente. Nei capitoli di “Unleashed” dedicati all’invasione di Vladimir Putin, Johnson utilizza subito il termine perfetto: sono anni che cerchiamo giri di parole per denunciare l’arbitrarietà violenta e conquistatrice del presidente russo, per smontare l’idea russa della reazione a una provocazione storica – l’allargamento della Nato – e Johnson va dritto al punto, all’essenza di questa lotta tra oppressione e libertà, che è appunto l’innocenza. L’Ucraina era innocente ed è stata massacrata.

Venti minuti dopo l’avviso dell’invasione, l’allora premier britannico chiamò il presidente ucraino Volodymyr Zelensky per dirgli: vi sosterremo sempre e per chiedergli: sei al sicuro? di cosa hai bisogno? I due, eletti entrambi nel 2019, si conoscevano – “eravamo entrambi in qualche modo degli outsider che erano diventati noti al pubblico in programmi televisivi: i suoi sforzi, va detto, avevano avuto molto più successo dei miei” – e avevano buone relazioni: Johnson era convinto che la sopravvivenza dell’Ucraina dipendesse dalla sopravvivenza di Zelensky e così gli offrì di portarlo a Londra, dove avrebbe potuto costituire un governo in esilio. “Come sempre, Volodymyr fu educato, grato per l’offerta e per il sostegno britannico, ma non aveva alcuna intenzione di lasciare la capitale ucraina. Non aveva bisogno di un passaggio, ma di armi (...). Mi sentii in imbarazzo di fronte al coraggio di Zelensky”, scrive Johnson, “ma forse ero perdonabile considerando i consigli che i miei esperti mi avevano dato nelle ultime settimane”.

Johnson spiega fin da subito qual era stato – e ancora è – il problema di questo conflitto: nessuno aveva capito Putin (o non aveva voluto capirlo: più esplicito di così nei suoi obiettivi di conquista, tra manifesti sull’Ucraina che non esiste come identità e truppe ammassate, il presidente russo non avrebbe potuto esserlo), ma soprattutto nessuno aveva capito l’Ucraina. “Eravamo convinti che in breve tempo i russi avrebbero preso il controllo dell’Ucraina – scrive Johnson – Nel nostro pessimismo, temo che eravamo inconsapevolmente condizionati dall’arroganza dell’approccio di Putin. Si trattò di un errore madornale che avrebbe confuso il nostro modo di pensare per molti mesi – un timore superstizioso e totalmente immeritato nei confronti della prodezza militare dei russi, e una riluttanza ottusa a vedere che non soltanto Zelensky e gli ucraini erano determinati a resistere, ma che avevano l’istinto e il fervore patriottico per battere i russi. Tutto quello di cui avevano bisogno, come mi aveva detto Volodymyr fin da quel primo mattino, era il sostegno giusto, i mezzi giusti – e avrebbero finito loro il lavoro”. Questo “filtro russo” su tutto quel che riguardava e riguarda l’Ucraina non era un’esclusiva britannica: nelle anticipazioni di un altro libro, “War” di Bob Woodward che uscirà il 15 ottobre, lo si ritrova anche nell’Amministrazione Biden. Nel settembre del 2022, quando gli ucraini avevano già liberato Kharkiv, sorprendendo i russi che scapparono scomposti, l’intelligence americana alzò al 50 per cento la possibilità che il Cremlino utilizzasse armi nucleari tattiche se gli ucraini avessero accerchiato le 30 mila truppe russe che occupavano la città di Kherson, nel sud. La cautela con cui ancora oggi gli americani e gli occidentali si muovono nell’incrementare l’aiuto agli ucraini è figlia di quel filtro russo che si è radicato nei governi e nell’opinione pubblica, su cui Mosca fa leva incessantemente, sapendo di poter ottenere almeno un po’ di tempo. Anche il dibattito sul negoziato – che si è riaperto in questi giorni, in vista del vertice di Ramstein, in Germania, che era previsto per il 12 ottobre ma è stato rimandato a causa dell’assenza di Joe Biden – è sempre condizionato dal guardare il conflitto con il timore nei confronti di Putin – la paura di vincere. E sì che è evidente che la Russia non voglia porre fine al conflitto: ha stanziato nel suo budget biennale della Difesa il 6,5 per cento del pil, continua a elargire bonus a chi si arruola (levando fondi a scuola, pensioni, sanità), è organizzata per continuare e intensificare la guerra.

Il filtro russo ha però applicazioni molto più pericolose, basti ascoltare le parole del premier ungherese Viktor Orbán – “In Ungheria c’è un detto: ‘Se vuoi vincere, bisogna che ci sia il coraggio necessario per ammettere che stai per perdere’. E stiamo effettivamente perdendo in Ucraina e voi vi comportate come se non fosse così”, ha detto ieri rivolgendosi al Parlamento europeo – o quelle di Donald Trump e di tutta la galassia nazionalista. Si fanno chiamare “il partito globale della pace”, dicono di conoscere bene Putin, che l’Ucraina non può vincere, che l’occidente deve fermare l’invio di armi a Kyiv, che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Ue è una provocazione, che i compromessi territoriali andranno per forza digeriti dagli ucraini. Uno dei membri di quest’alleanza che vuole la resa di Kyiv, il governo della Georgia, definisce specularmente l’occidente “il partito globale della guerra”.

Boris Johnson rappresenta un’eccezione notevole con il suo conservatorismo liberale. Nazionalista, populista, sovranista, innamorato della Brexit come riscatto del Regno Unito, l’ex premier è stato spesso assimilato – e altrettanto spesso non si è tirato indietro – al mondo conservatore trumpian-orbaniano, ma con il suo sostegno all’Ucraina traccia una divisione netta con l’illiberalismo. Johnson riporta una domanda che gli fece un consigliere del governo tedesco poco prima dell’invasione: e se gli ucraini non resistono e collassano velocemente? La riflessione che fa in seguito si applica oggi molto più ai conservatori illiberali che a Berlino: “Capivo cosa stava pensando. Non sarebbe meglio per il mondo, pure se è una tragedia per l’Ucraina, che questa cosa finisca in fretta? Non potremmo salvare migliaia di vite ed evitare tormenti economici? Quel che proponeva era nauseante: abbandonare un paese sovrano europeo, permettendo a una democrazia di essere occupata da una dittatura. Era sbagliato come principio, ma anche in pratica, pure oltre ogni calcolo opportunistico”.
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi