FINO A DOVE ARRIVA HAMAS

L'ultimo appello ai giovani in Cisgiordania: il Ramadan è l'ora del vostro jihad. Il primo non aveva funzionato

Cecilia Sala

Idf e servizi segreti vogliono aprire di più  la moschea di al Aqsa ai palestinesi per disinnescare la tensione

Tulkarem, Cisgiordania. Sul bordo opposto della strada, oltre l’asfalto divelto e i cavi elettrici penzolanti, c’è un ventenne con la mano destra amputata e la kefiah rossa che protesta perché non potrà andare a pregare alla moschea di al Aqsa adesso che è cominciato il mese santo per l’islam. Con lui ci sono un gruppetto di giovani vestiti di nero e un ragazzo di ventidue anni con la testa rasata che è stato liberato oggi dopo due anni passati in una prigione israeliana “per un’azione patriottica”, dice, e violenta di cui non vuole parlare. Alcuni di quelli vestiti di nero portano una fascia sulla testa con stampati sopra versetti del Corano e tutti sparano verso il cielo per fare una festa a chi è appena uscito di galera. Gridano il nome del fratello diciannovenne del ragazzo con la testa rasata, che è morto sotto la bomba sganciata da un drone in uno dei diciotto raid israeliani che ci sono stati a Tulkarem dal 7 ottobre: “Si chiamava Samer, che significa lucente come il sole”. I ragazzini della zona hanno cucito tra loro grandi teli neri di plastica e poi li hanno appesi, legandoli alle finestre in modo che andassero da una palazzina a quella di fronte coprendo la strada così che i droni israeliani non possano vedere gli uomini armati mentre si spostano da un punto a un altro nei vicoli. Sotto i teli neri sventolano due bandiere verde brillante di Hamas. 

I palestinesi con il fucile in mano di Tulkarem hanno guardato l’appello del portavoce dell’ala militare del gruppo, Abu Ubaida, che venerdì ha chiesto loro un salto di qualità negli attacchi e una mobilitazione in direzione della moschea di al Aqsa durante il Ramadan in un video in cui proclama: “Questo è il mese della vittoria, questo è il mese del jihad”. Una dichiarazione che non aiuta lo sforzo internazionale per arrivare a un cessate il fuoco. 

I palestinesi di Tulkarem invece non sono informati dell’esito della riunione israeliana che c’è stata la settimana scorsa a Gerusalemme per decidere le misure di sicurezza attorno alla moschea nel mese santo. Alla riunione erano presenti i vertici della polizia, i rappresentanti dell’apparato militare, dei servizi di sicurezza e del governo. I poliziotti, che rispondono al ministro estremista della Sicurezza Itamar Ben Gvir, insistevano: chiudiamo tutto, non facciamo entrare nessun palestinese dalla Cisgiordania e applichiamo una selezione rigida all’ingresso per i palestinesi di Gerusalemme est. L’esercito e i servizi segreti rispondevano: apriamo tutto, è la chiusura che incrementa la tensione e se non li lasciamo pregare le cose possono soltanto andare peggio. Il governo di Netanyahu, per questa volta, ha dato retta ai secondi. Hamas è dispiaciuto per la decisione perché il gruppo prospera nella tensione.
I ventenni di Tulkarem erano abituati a un’altra politica: se hai meno di 45 anni ti è proibito l’accesso ad al Aqsa, il luogo più sacro. Il ragionamento israeliano è: i cinquantenni sono meno aggressivi dei ventenni, con i più anziani non avremo disordini. La regola anagrafica informale ha un’eccezione, non vale per quelli sposati con figli e il ragionamento israeliano è: se hai qualcuno che ti aspetta a casa e che vive sotto occupazione è meno probabile che tu compia un attacco. A prescindere dai dettagli quello che rende nervosi i palestinesi di Tulkarem è il fatto stesso che gli israeliani esercitino questo tipo di controllo sulla loro moschea, uno dei tre luoghi sacri più importanti per l’islam mondiale. E di solito la loro rabbia aumenta nel mese di Ramadan rispetto agli altri mesi. 

La scelta di scardinare una politica molto restrittiva che era stata decisa dal governo Netanyahu e di farlo in tempo di guerra ha a che fare (anche) con un precedente: i vertici di Hamas chiesero ai palestinesi armati della Cisgiordania di portare la guerra ovunque già il 7 ottobre. Quel giorno il capo dell’ala militare del gruppo, Mohammed Deif, disse: “Marciate in avanti, con armi leggere o pesanti, perché il momento è arrivato”, e poi: “Questo è il giorno in cui la storia apre le sue pagine più pure”. Ma i palestinesi armati di qui, di Nablus e di Jenin – per paura o per scelta – non avevano risposto alla chiamata. 
I giovani col fucile in mano a Tulkarem simpatizzano con Hamas ma non hanno rapporti diretti e frequenti con i comandanti del gruppo e non fanno parte dell’esercito di Deif. Tra loro una piccola minoranza è a disagio con i fatti del 7 ottobre perché ha visto su Telegram le foto del neonato israeliano fucilato in culla nel kibbutz di Kfar Aza e i corpi ammucchiati delle signore anziane giustiziate alla fermata dell’autobus a Sderot. Una grande maggioranza sceglie la strada più comoda: nega quei fatti. “Quella  è soltanto propaganda israeliana, Hamas non ammazza donne e bambini perché il Corano lo vieta”. 

Il ragazzo con la mano destra amputata non ha mai visto il mare anche se abita a quindici minuti dalla spiaggia e non ha mai visitato al Aqsa perché non è né cinquantenne né sposato: questo Ramadan potrebbe essere la sua prima occasione. Ha studiato ingegneria, parla un inglese perfetto e nel 2016, nel giorno in cui Donald Trump riconobbe Gerusalemme capitale d’Israele, uscì dall’aula dell’università, attraversò il prato e si mise a tirare le pietre all’installazione militare di fronte. Un cecchino uscì, gli sparò alla mano destra e gridò: “Così non ti potrai vendicare”.
Gli abitanti di Tulkarem parlano senza timidezze dell’ondata di adesioni ai gruppi armati da parte di maschi molto giovani che sono cominciate un anno e mezzo fa ma sono diventate più numerose negli ultimi cinque mesi di guerra e di stragi a Gaza. Gli israeliani sospettano che venissero da qui gli uomini che giovedì scorso hanno aperto il fuoco davanti a un distributore di benzina. 

Sulla strada che da Gerusalemme est va a Tulkarem c’è una pompa di benzina israeliana, serve l’insediamento di coloni di fronte. L’insediamento è abitato da alcuni estremisti, ogni tanto gli estremisti tirano pietre dalla collina contro le auto palestinesi che passano: le riconoscono dal colore della targa che è diverso dal colore delle targhe israeliane. Giovedì i terroristi mascherati si sono presentati alla pompa di benzina armati e hanno aperto il fuoco a caso contro chi c’era. Hanno ucciso due persone e ne hanno ferite nove. Sono questi gli uomini armati che i soldati israeliani stavano cercando nell’ultimo raid, quello in cui hanno distrutto anche un pezzo della scuola per poter manovrare i mezzi militari che non passano dai vicoli strettissimi del campo profughi dentro la città.  

Per i musulmani il Ramadan è un momento di digiuno fisico e spirituale, cioè di astensione dalle passioni terrene. Ma in medio oriente tutti sanno che non è mai stato garanzia di quiete. La guerra dello Yom Kippur si chiama anche quella del Ramadan ed è stata dichiarata da Egitto e Siria durante il mese sacro. Il Ramadan è stato spesso un’occasione di violenza soprattutto a Gerusalemme. Hamas vorrebbe che fosse un catalizzatore di guerra per tutta la regione e per tutti i musulmani – che passeranno più tempo in casa davanti ad al Jazeera a guardare in diretta le bombe su Gaza e i cadaveri – come non lo è stato il 7 ottobre nonostante le preghiere di Deif.