Screenshot/ Parasite 

Il commento

Il suicidio dell'attore Lee Sun-kyun, ennesima vittima di una società che vive di estremismi

Giulia Pompili

Nella società sudcoreana il suicidio è spesso il mezzo con cui si risolve la gogna, la scappatoia per fuggire dall’insostenibile peso delle accuse. Il lato oscuro di un’industria capace di produrre capolavori come “Parasite”

Una società intera oggi piange uno dei suoi attori più talentuosi, Lee Sun-kyun, di 48 anni, trovato morto nella sua automobile ieri mattina dopo aver lasciato a casa un bigliettino d’addio. Eppure, fino a ieri, nessuno aveva tentato di frenare l’odio violento dell’opinione pubblica che lo aveva avvolto e strozzato fino a soffocarlo. Nella società sudcoreana il suicidio è sempre più spesso il mezzo con cui si risolve la gogna – è un atto che sfugge alla condanna della tradizione, come nei paesi cattolici. È la scappatoia per fuggire dall’insostenibile peso delle accuse, anche quelle più sciocche ma che diventano ingestibili in un paese dal conservatorismo estremista, e dove ogni ragazzino, ex politico, adulto annoiato che abbia una connessione internet diventa uno youtuber con un’opinione su tutto da offrire, soprattutto se riguarda la vita privata dei personaggi pubblici. È il lato oscuro della macchina del K-pop, un’industria capace di produrre capolavori come “Parasite” di Bong Joon-ho – dove Lee Sun-kyun interpretava il padre della ricca famiglia Park, il ruolo che gli ha dato la notorietà internazionale – e allo stesso tempo di accettare un sistema dal  giudizio morboso, una dittatura dell’omologazione morale che ha contribuito a trasformare la Corea del sud nel paese con il tasso di suicidi tra i più alti del mondo (25,2 morti ogni 100.000 persone, la media Ocse è di 10,6).

 
Lee Sun-kyun è l’ultima vittima di un lungo elenco di personaggi esposti mediaticamente – attori, cantanti, influencer – che preferiscono la morte al perverso e infinito processo dell’opinione pubblica, ai tabloid che gli corrono dietro e all’industria che protegge e agevola il sistema. Ad aprile a togliersi la vita era stato Moonbin, star del K-pop che cantava nella boyband Astro. Ma è la droga ad aver rovinato la carriera di Lee Sun-kyun , che l’anno scorso aveva pure ricevuto una nomination agli Emmy per il suo ruolo in  “Dr. Brain”. Una canna, un po’ di ketamina, l’accusa di una donna che a ottobre aveva detto: Lee si è drogato. Lui si era difeso, aveva detto di non aver mai fatto uso di droghe, di essere sotto ricatto durante le 19 – diciannove! – ore di interrogatorio che aveva subito dalla polizia. Ma per gli opinionisti di YouTube era diventato già lo scandalo buono per  riempire il web di fake news. Era successo qualcosa di molto simile nel 2018 a T.O.P, al secolo Choi Seung-hyun, superstar della boyband BigBang: accusato di detenere illegalmente marijuana, aveva tentato il suicidio. 

 

Per la Corea del sud l’uso di sostanze, di qualunque tipo, è un reato punibile fino a 14 anni di prigione, anche se il tiro, in questo caso “il reato”, è stato compiuto fuori dai confini. Il presidente  Yoon Suk-yeol, qualche tempo fa, ha indetto una “guerra alla droga”, rievocando i fantasmi non tanto lontani di  Duterte nelle Filippine. Nel 2023 17 mila persone sono state arrestate per reati legati alla droga in Corea del sud.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.