Contro i disfattisti

Il segnale pro Kyiv dell'Ue arriva nitido anche a Washington, per chi vuole ascoltarlo

Paola Peduzzi

Il Congresso non va in vacanza e la prossima settimana vota sugli aiuti all'Ucraina. I repubblicani sono tutt'altro che persuasi, ma l'apertura ai negoziati decisa dal Consiglio europeo toglie molti alibi. Le ragioni di testa per sostenere Kyiv sono forti, poi c'è il cuore, ad avercelo

Il segnale europeo è arrivato nitido anche a Washington e il leader del Partito democratico al Senato, Chuck Schumer, ha detto che il Congresso resta aperto anche la prossima settimana – avrebbe dovuto chiudere ieri per la pausa festiva – per votare il pacchetto da 106 miliardi che include anche i 61 miliardi del sostegno all’Ucraina. Al momento i repubblicani, che hanno subordinato gli aiuti indispensabili a Kyiv alla concessione da parte della Casa Bianca di restrizioni sull’immigrazione, non si possono certo definire persuasi, ma il fatto che l’Europa non abbia creato un alibi ulteriore ha dato un nuovo slancio al negoziato.

Da settimane al Congresso i repubblicani – rimasti pressoché insensibili persino dopo aver ascoltato Volodymyr Zelensky arrivato a Washington per spiegare che gli aiuti americani sono “vita o morte” per l’Ucraina – ripetono, tra le altre cose, che l’Europa deve prendere la leadership della sicurezza contro la Russia e non aspettare sempre che gli americani arrivino in soccorso.

Non è una posizione peregrina, certamente, ma è evidente che il prezzo di questa presunta lezione lo pagano interamente gli ucraini che non hanno alcuna alternativa se non continuare a difendersi. La decisione del Consiglio europeo di aprire i negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Ue ha ribaltato la dinamica disfattista che si era imposta finora, aiutata dalla determinazione dei repubblicani a mettere la politica nazionale prima di quella internazionale. Il segnale è stato ancora più forte perché l’Ungheria ha deciso di non mettersi di traverso alla decisione politica dell’allargamento europeo: insiste sui soldi, ma questa è per così dire la parte facile. Lo è anche in America: la stragrande maggioranza dei fondi destinati all’aiuto militare all’Ucraina – circa il 90 per cento – resta sul suolo americano, perché è lì che si producono le armi che servono alla difesa ucraina, per di più in stati i cui rappresentanti al Congresso e al Senato s’oppongono a questi fondi. Che è come dire ai propri elettori: potreste avere soldi e posti di lavoro, ma siccome questa è la guerra di Joe Biden contro la Russia, una sua fissazione – i Caracciolo dicono che “gli ucraini sono stati usati dagli americani per dissanguare i russi” – noi ve li neghiamo (ovviamente agli elettori viene omessa la prima parte e viene propagandata soltanto la seconda).

David French, intellettuale conservatore che è a favore degli aiuti all’Ucraina e a una politica condivisa sull’immigrazione in America, ha scritto un saggio sul New York Times per provare a delineare le argomentazioni necessarie per convincere i repubblicani a sostenere Kyiv contro il tentativo dei loro leader e dei media di area di dare una connotazione identitaria anche all’ostilità nei confronti degli ucraini (e soprattutto di Zelensky). Tra le tante cose interessanti che French scrive ce n’è anche una economica: “Facendo un freddo calcolo di guerra, l’aiuto all’Ucraina è una delle iniziative militari più efficienti dal punto di vista dei costi della storia moderna americana. Spendendo una piccola parte del budget della Difesa – nel 2022, gli Stati Uniti hanno speso 812 miliardi di dollari e dall’inizio dell’invasione di Vladimir Putin ne hanno dati 75 all’Ucraina – l’esercito ucraino ha ritardato le capacità offensive della Russia di un anno o più. E questo è accaduto senza che nemmeno un soldato americano sia morto”. Questa è una argomentazione “di testa”, dice French: “Aiutiamo a spezzare il potere militare di uno dei rivali geopolitici più potenti che abbiamo a un costo che la nostra nazione può facilmente permettersi”.

Poi c’è il cuore. Per quanto possa sembrare assurdamente cinico, le ragioni del cuore, che vanno di pari passo con quelle dei valori e delle priorità valoriali, sono quelle meno praticabili nel persuadere i repubblicani, proprio come lo è stato con il premier ungherese Viktor Orbán (che ragiona soltanto in termini di scambi di favori e di soldi) e con i Caracciolo che dicono, nel giorno storico dell’unità europea a favore di Kyiv e dell’allargamento, che comunque l’Ucraina è uno stato fallito e Zelensky ha già perso (in questo caso è l’ideologia anti occidentale e disfattista che ha il sopravvento, con una manipolazione talmente estrema che il segretario di stato americano Antony Blinken, quintessenza dell’establishment democratico americano, diventa un neocon). E sì che la chiarezza morale per i repubblicani è sempre stato un principio da perseguire.

Ma non c’è nemmeno bisogno di entrare in discorsi di filosofia politica per svelare il bluff ideologico di un mondo conservatore, da Orbán a molti repubblicani che infatti hanno tra di loro un dialogo costante: i fondi per l’Ucraina aiutano l’economia americana, e Kyiv “non chiede nemmeno di stare con lei sul campo di battaglia – scrive French – Semplicemente ci chiede di metterle in mano la spada”. Se i disfattisti stanchi non hanno un cuore, e non ce l’hanno, almeno che usino la testa e guardino al portafoglio.
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi