Tutti i limiti del ricatto della fame di Putin

Luciano Capone

Il Cremlino prova di nuovo a prendere in ostaggio mezzo mondo facendo saltare l'accordo sul grano ucraino, ma la sua strategia ha due grossi problemi: non fa svanire l'appoggio dell'Occidente a Kyiv e fa entrare la Russia in contrasto anche con Cina, Turchia e Arabia Saudita

L’Ucraina fa saltare il Ponte di Crimea e la Russia fa saltare l’accordo sul grano. Ma il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, dice che “questi eventi non sono assolutamente correlati tra loro”: l’attacco nella notte al ponte di Kerch ha coinciso con una decisioneche era già nell’aria. La motivazione formale del Cremlino è che “la parte relativa alla Russia di questi accordi ancora non è stata attuata, quindi la sua validità è terminata”. Il riferimento è alle richieste di allentare le sanzioni per facilitare l’export di fertilizzanti russi e di connettere la Banca agricola russa (Rosselkhozbank) al sistema di pagamenti internazionali Swift. Nella sostanza, la Russia ha preso di nuovo in ostaggio i poveri del mondo.

La decisione di Putin arriva dopo una serie di colpi alla sua immagine. L’ultimo, certamente, è il bombardamento con i droni che ha messo per la seconda volta fuori uso il ponte che collega la Russia alla Crimea, dal forte valore sia strategico sia simbolico. Ma prima ancora c’erano stati gli affronti del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, facilitatore e garante del patto sul grano insieme alle Nazioni Unite, che al vertice di Vilnius ha fatto cadere il veto all’adesione della Svezia nella Nato e si è detto favorevole anche all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza dopo, per giunta, aver rimandato a Kyiv i capi del battaglione Azov che secondo gli accordi con Mosca sarebbero dovuti rimanere in Turchia fino alla fine della guerra. È come se Putin, che già da fine giugno aveva rallentato il funzionamento del meccanismo che consente l’export di grano ucraino bloccando i controlli congiunti, avesse commesso un  fallo di reazione attraverso il solito metodo: minacciare di far morire i civili, in Ucraina con le bombe, e nel resto del mondo di fame. Qualcosa di analogo era  accaduto il 29 ottobre 2022, quando dopo un attacco con i droni alla flotta del Mar Nero, sempre in Crimea, a Sebastopoli, la Russia annunciò la sospensione dell’accordo sul grano. Salvo , dopo pochi giorni, il 2 novembre, ritirare la sospensione e infine il 19 novembre rinnovare il patto per  120 giorni.

Alla scelta russa di sospendere la Black Sea Initiative sul grano hanno reagito  in maniera dura i paesi occidentali. Per l’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni unite è “un atto di crudeltà”, mentre la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen l’ha condannata come una “mossa cinica”, contro cui l’Europa sta “lavorando per garantire la sicurezza alimentare per le persone vulnerabili in tutto il mondo”. Ma il problema per il Cremlino è che neppure i grandi attori internazionali alleati o non ostili a Mosca approvano la sua mossa: la Turchia spinge per il rinnovo e ha fatto intendere, quasi come una minaccia, che la sua marina potrebbe proteggere le navi di grano ucraine nel Mar Nero anche senza l’accordo con la Russia; l’Arabia Saudita teme che un rialzo dei prezzi dei beni alimentari possa far esplodere rivolte in Medio oriente (come ai tempi delle primavere arabe); la Cina, che affronta problemi economici, si è espressa a favore dell’accordo.

Sorprendente, per la durezza, è stata anche la reazione del segretario generale dell’Onu António Guterres: “Deploro profondamente la decisione della Russia di porre fine all’attuazione dell’Iniziativa del Mar Nero, che è stata un’àncora di salvezza per la sicurezza alimentare globale in un mondo tormentato. Ne pagheranno il prezzo centinaia di milioni di persone che soffrono la fame e i consumatori che devono affrontare una crisi globale dell’aumento del costo della vita”. Guterres si è detto “profondamente deluso” dal fatto che le sue proposte per andare incontro ad alcune richieste di Putin “siano rimaste inascoltate”.

 

D’altronde, neppure la tesi del Cremlino secondo cui l’export ucraino andrebbe quasi esclusivamente a favore dei paesi ricchi può essere presa sul serio. I numeri parlano chiaro. L’accordo sul grano ha consentito l’export di 33 milioni di tonnellate di derrate (mais, frumento, olio di girasole, etc.) da tre porti ucraini sul Mar Nero. A prescindere dalla destinazione, l’impatto più importante è stato sui prezzi internazionali che dal picco di marzo 2022 sono scesi del 23 per cento. In ogni caso, l’export è andato al 43 per cento ai paesi sviluppati e al 57 per cento ai paesi in via di sviluppo (in particolare Cina, prima destinazione mondiale, e Turchia). Ma oltre che sui prezzi, l’accordo sul grano è stato fondamentale per i paesi più poveri e per affrontare le crisi umanitarie: a luglio 2023 il World Food Programme dell’Onu ha preso l’80 per cento delle sue forniture globali di grano dall’Ucraina, in netto aumento rispetto al 50 per cento del 2021 e del 2022.

 

Il vero problema per Putin è che la sua strategia ricattatoria non sembra funzionare. Da un lato, non sta facendo svanire la determinazione occidentale nell’aiuto all’Ucraina; dall’altro la fine dell’accordo sul grano rischia di produrre per la Russia fratture con gli altri player globali come l’Arabia Saudita (e quindi l’Opec), la Turchia e la Cina, per non parlare dei paesi del sud del mondo di cui Putin si è improvvisato paladino. E probabilmente è proprio questo scenario disastroso per Mosca che può evitare una catastrofe economia e umanitaria a livello globale, costringendo Putin a rientrare in qualche modo nell’accordo. Magari a partire dal prossimo incontro con Erdogan, previsto ad agosto in Turchia.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali