Vladimir Putin non ha partecipato ai funerali di Gorbaciov, ma ha solo offerto uno sbrigativo omaggio al feretro (foto LaPresse) 

“Perestrojka” e “glasnost”, il trauma di Putin

Michele Magno

La “damnatio memoriae” di Gorbaciov, colpevole di aver portato alla dissoluzione l’impero sovietico. Così il nuovo zar fa i conti col passato

 

“Il crollo dell’Unione Sovietica è stato una delle più grandi tragedie geopolitiche del ventesimo secolo”

(Vladimir Putin, Discorso alla Duma, 2005).

 

Mosca, 1 settembre 2022: Vladimir Putin rende un frettoloso omaggio al feretro di Mikhail Gorbaciov esposto al Central Clinical Hospital. Il suo portavoce, Dmitry Peskov, fa sapere che non sono previsti funerali di stato e che il presidente non parteciperà alle esequie per impegni di lavoro. Volgograd (ex Stalingrado), 1 febbraio 2023: con un giorno di anticipo, Putin scopre un busto di Josif Stalin per celebrare l’ottantesimo anniversario della vittoria sulla Germania nazista. Sono due esempi diversi ma speculari di quella nostalgia per l’Urss che permea l’ideologia ufficiale del regime e le sue aspirazioni di “grandeur” nel nuovo millennio. Una nostalgia che contempla non solo la glorificazione della “battaglia più sanguinosa della storia”, ma anche una sostanziale “damnatio memoriae” di chi viene considerato il becchino della dissoluzione dell’impero sovietico. Un trauma, quest’ultimo, non ancora superato e che spiega in buona il misura il forte legame, almeno fin qui, tra l’ex tenente colonnello del Kgb e il suo elettorato. Una ricostruzione accurata della genesi di questo trauma, su cui peraltro sono stati versati fiumi d’inchiostro, si deve a Gian Piero Piretto, autore di un libro – di cui sono debitrici queste note – pubblicato per la prima volta nel 2018 e riedito da Raffaello Cortina (Quando c’era l’Urss. 70 anni di storia sovietica).


Il successore di Costantin Cernenko sale al potere nel marzo 1985. L’anno seguente, nel discorso al XXVII Congresso del Pcus illustra le parole chiave del suo mandato: “perestrojka” (riforme) e “glasnost” (trasparenza), a cui più tardi si aggiungono “uskorenie” (accelerazione) e “demokratizacija” (democratizzazione). Al di là del senso strettamente politico di questi termini, essi – sottolinea Piretto – si scontravano con categorie basilari della cultura russa: lentezza e, addirittura, immobilismo. Si pensi a Oblomov, il protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Goncharov del 1859, simbolo dell’inetta nobiltà terriera dell’epoca. L’oblomovismo, caratterizzato dalla “len” (indolenza, apatia), divenne la bestia nera degli occidentalisti che auspicavano un paese moderno, in cui i diritti umani e civili fossero proclamati e rispettati, che emancipasse i ceti più umili da un’atavica sottomissione al potere e da un miserevole destino. Non deve pertanto stupire che l’abolizione della servitù della gleba, voluta nel 1861 dallo zar Alessandro II, abbia incontrato l’ostilità sia dei padroni che dei loro subalterni. Anton Cechov ritrae magistralmente nelle sue commedie, Il giardino dei cilegi (1904) in particolare, sia l’agonia sociale dei primi sia la mentalità servile quasi inscalfibile dei secondi. Del resto, anche l’introduzione dei piani quinquennali era stata vissuta come una violenza al lento scorrere del tempo. E persino la lotta contro il samovar dei primi bolscevichi era stata subita come un attacco alla serena pigrizia delle giornate trascorse bevendo infinite tazze di tè.

 

“Perestojka” e “glasnost” si scontravano con categorie basilari della cultura russa: lentezza se non addirittura immobilismo

  
Il blitz di Gorbaciov si abbatte come uno tsunami sulla società sovietica. Dopo decenni di controllo occhiuto e vessatorio, entra in scena un leader che sovverte le sue regole, le sue consuetudini, le sue tradizioni. Viene concessa a contadini e fabbricanti una più ampia libertà di scelte e di investimenti, che si accompagna però ad aumenti dei prezzi che suscitano un dilagante malcontento. Viene contrastato con severità il diffuso assenteismo nei luoghi di lavoro. L’abuso nel consumo di alcol viene limitato con drastici provvedimenti. Viene abolita la perdurante censura sui misfatti più gravi dello stalinismo. Tuttavia, malumori e resistenze non mancano. Persino l’eleganza e lo stile della moglie di Gorbaciov, Raisa Maksimova, infastidiscono l’opinione pubblica più retriva. Insomma: troppo occidente, troppo in fretta, troppo di tutto. Solo una ristretta élite di intellettuali si giova del nuovo clima che si respira nel mondo della letteratura, del cinema, della musica, dell’arte. Nel 1987 viene pubblicato un romanzo di Anatolij Ribakov, I figli dell’Arbat. E’ il romanzo della “perestrojka” per antonomasia. Racconta le vite di un gruppo di giovani cresciuti sulla via Arbat, nel pieno centro di Mosca. Le sue pagine narrano senza veli le purghe staliniane, gli amori, le illusioni, le speranze tradite di una intera generazione. Inoltre, Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn e Il dottor Zivago di Boris Pasternak vedono finalmente la luce. Alle elezioni del 1988 viene presentato il fisico dissidente Andrej Sacharov. Gli accesi dibattiti parlamentari tra liberali e conservatori sono trasmessi in diretta televisiva, e vengono commentati nelle case da milioni di cittadini increduli di fronte a quella che era certamente una novità assoluta.


C’è poi un film uscito nel 1989 che rispecchia felicemente i sentimenti contraddittori provocati dalla “glasnost”: “La piccola Vera” di Vasilij Pichul. Vera è una ragazza inquieta, fresca di diploma, che vive con i genitori in una città industriale delle più squallida provincia sovietica, Zdanov, la vecchia Marjupol sul mare di Azov. Inquinamento, alcolismo, sesso, meschinità e violenze domestiche, disagi esistenziali. Vedere rappresentati con sfrontato realismo i propri vizi e le proprie fragilità, scatena le reazioni indignate di gran parte degli spettatori. Spettatori turbati come ai tempi del “cine-pugno” di Sergej Ejzenstein, un cinema che era agli antipodi delle edificanti pellicole staliniane che rassicurano e lasciano dormire tranquilli. Spettatori più sconvolti da una storia di ordinaria mediocrità che non dalla ferocia della gang giovanile bielorussa protagonista del film “Mi chiamo Arlekino” di Valerij Rybarev (1988). Una specie di “Arancia meccanica” post litteram (il capolavoro di Stanley Kubrick è del 1971), dove campeggiano i brutali pestaggi e stupri di a cui è dedita una banda di delinquenti. Questi, però, erano i “cattivi”, una minoranza da cui era facile prendere le distanze. L’esatto opposto di quanto accadeva invece con l’opera di Pichul, che metteva a nudo un malessere e un’insoddisfazione nelle quali le classi popolari si riconoscevano ma con cui rifiutavano di fare i conti. 

  

La lettera di una sconosciuta docente contro il nuovo corso, colpevole di ignorare le straordinarie imprese dell’èra del “socialismo realizzato”

  
Il 13 marzo 1988 sul quotidiano “Sovetskaia Rossija” (Russia sovietica) appare una lettera  intitolata “Non posso rinunciare ai miei princìpi”. La firma Nina Andreeva, una sconosciuta docente di chimica in una scuola di Leningrado. E’ un aspro atto d’accusa contro il nuovo corso gorbacioviano, colpevole di ignorare le straordinarie imprese compiute nell’èra del “socialismo realizzato”. Un attacco quasi sicuramente ispirato dal segretario del Comitato centrale Yegor Ligaçëv, uno dei più fieri avversari della “perestrojka”. Diversi studiosi vi hanno letto una sorta di mini-putsch, anticipatore di quello ben più drammatico che nel 1991 tenterà di travolgere Gorbaciov. Questi, allora assente perché in visita a Belgrado, fiuta il pericolo. Al suo rientro in patria, convoca immediatamente il Politburo per discutere il caso. Nessuno ha il coraggio di contestarlo. Il 5 aprile esce un articolo sulla “Pravda” che liquidava la lettera di Andreeva come un “manifesto di forze contrarie alle riforme”. Gli oppositori vengono formalmente messi a tacere, ma il loro dissenso non viene sedato. 

  

“Danke, Gorbi!”, si poteva leggere sui muri in Germania. Ma su quel progetto pesava come un macigno la stagnante economia russa

  
Il 7 dicembre 1988, intervenendo all’Assemblea generale dell’Onu, Gorbaciov annuncia l’apertura di una nuova fase nella strategia di distensione tra Est e Ovest: effettivo cessate il fuoco in Afghanistan, piano di disarmo unilaterale, ritiro di diverse divisioni corazzate di stanza nei paesi del Patto di Varsavia, non interferenza nei loro affari interni, riconversione di una parte significativa dell’industria bellica per scopi civili, più incisiva e stringente difesa della legalità nelle Repubbliche sovietiche. Replicando indirettamente ai suoi ormai numerosi nemici, alza  dunque il tiro e si presenta con un progetto di respiro planetario che rompeva definitivamente i ponti con l’eredità del marxismo-leninismo. Il suo effetto più clamoroso non si fa attendere: nel novembre 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino. “Danke, Gorbi!”, si poteva leggere sui muri (con la minuscola) della metropoli tedesca. Ma su quel progetto pesava come un macigno un’economia stagnante, se non proprio sull’orlo di un rovinoso tracollo, anche a causa della caduta dei prezzi del petrolio, dai cui introiti dipendeva la prosperità del mercato dei beni di consumo e l’attivo della bilancia dei pagamenti. I negozi erano vuoti, i mercati colcosiani ostentavano banchi desolatamente sguarniti di merci; le famigerate code erano scomparse, ma soltanto perché c’era poco o nulla da comprare. D’altro canto, la pianificazione centralizzata era stata smantellata ma non sostituita da un sistema produttivo più efficiente e capace di creare ricchezza. Sempre un film del 1990 ci aiuta a capire il clima di quegli anni: “Taxi blues” di Pavel Lugin. Storia di una tormentata amicizia tra un tassista, conservatore e nazionalista, e un sassofonista alcolizzato, ebreo e anticonformista. Tra i due si instaura stranamente un rapporto profondo che si spezza quando il musicista, divenuto ricco e famoso, rientra da una tournée negli Stati Uniti. Dopo lo scoppio di un litigio furibondo, scatta una sequenza inaudita per la cinematografia sovietica: un inseguimento spettacolare tra automobili in una Mosca di una bellezza mozzafiato, che si conclude tragicamente con un’auto che prende fuoco davanti a una delle “Sette Sorelle”, come erano soprannominati gli imponenti edifici fatti costruire da Stalin per emulare i grattacieli americani. Come a significare che anche sul cambiamento più radicale incombeva il peso del passato.


Gli avvenimenti degli anni terminali dell’esperienza gorbacioviana sono noti. L’1 luglio 1991 il Patto di Varsavia viene sciolto. La trasformazione dell’Urss in una nuova realtà federativa era imminente. Gorbaciov si ritira nella dacia presidenziale in Crimea prima di affrontare questo cruciale passaggio storico. Per bloccarlo sul nascere, il capo del Kgb Vladimir Krjuchkov, il ministro degli Interni Boris Pugo, il ministro della Difesa Dmitrij Jazov, il vicepresidente Gennadij Janaev, il primo ministro Valentin Pavlov, il capo della segreteria di Gorbaciov Valerij Boldin, organizzano un colpo di Stato. Il segretario del Pcus viene recluso nella sua residenza. Dagli studi televisivi della capitale Janaev lancia confusi messaggi che lasciano però indifferente la maggioranza dei moscoviti. Ciononostante, viene trasmessa a oltranza la melodia d’apertura del “Lago dei cigni” di Cajkovskij, tristemente famosa per preparare la comunicazione del decesso di un segretario del Pcus. Alcune migliaia di manifestanti si radunano davanti alla Casa Bianca, sede del governo, per sostenere Gorbaciov. L’allora presidente della Repubblica russa Boris Eltsin si schiera al suo fianco, e viene immortalato su un carro armato mentre arringa la folla e cerca di convincere i soldati a non sparare. Quando le guarnigioni inviate a Mosca si uniscono alla resistenza, l’ordine viene ristabilito. Il golpe era clamorosamente fallito, ma tramontava anche la possibilità di costituire una nuova confederazione. Il 24 agosto Gorbaciov si dimette da segretario del Pcus e a dicembre da  presidente dell’Urss. Il 25 dicembre, durante la notte di Natale (cattolico), la bandiera rossa viene ammainata dalla cupola del Cremlino. La compagine multinazionale sovietica cessava di esistere. 

  

Le due guerre cecene, un’influenza cruciale sulla involuzione del sistema politico russo. I legami oscuri tra governo ed elementi criminali

  
Ha scritto Andrea Agosti che le due guerre cecene (1994-1996 e 1999-2009) hanno avuto una influenza cruciale sulla involuzione del sistema politico russo (L’Ucraina e Putin, Laterza, 2022). Infatti, hanno conferito nuovi ruoli ai militari e ai servizi speciali, e hanno favorito legami oscuri tra governo e elementi criminali, documentati dettagliatamente da Anna Politkovskaja nei suoi reportage ora raccolti nel volume La Russia di Putin (Adelphi, 2005). Né va sottovaluta l’importanza che ha nella struttura del cesarismo putiniano il retaggio sovietico, in cui si combinano ambizioni imperiali, populismo statalista e potenti sfumature nazionaliste. Le ripetute invocazioni a un ripristino dei vecchi confini dell’Urss, o quanto meno alla riconquista dei territori abitati dalle minoranze russe, si sono progressivamente intensificate e hanno fatto breccia in vaste fasce della popolazione e delle élite al potere. La stessa invasione dell’Ucraina dimostra che Putin è sedotto dall’idea di un anacronistico nuovo impero russo con ambizioni egemoniche europee, che, con un termine in cui geografia e ideologia si fondono, può essere chiamato “eurasiatico”. Di contro a questa prospettiva, pur inquietante per i suoi aspetti militari aggressivi, data anche l’attuale ripresa del mito di Stalin come artefice della grande potenza russa, non si può escludere una complessa prospettiva opposta: una disgregazione dell’odierno assetto federativo della Russia, come effetto di una stagnante politica autoritaria. Del resto, la storia è piena di eterogenesi dei fini.

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