24 febbraio 2022-24 febbraio 2023

Mariupol oggi, dopo un anno di guerra

I centomila fantasmi e la squadra di liberatori ucraini che punta alla città

Cecilia Sala

Putin non vuole mantenere le vittime, "ingrate", dell’unica sua conquista: così ha preso i soldi dai loro conti correnti e lucra pure sulle merendine a scuola. Le nuove forme del terrore russo, nella città in cui non puoi fidarti di nessuno 

“Ero in mezzo alla strada con il naso all’insù a seguire il percorso degli aerei russi per capire cosa, chi, avrebbero fatto sparire questa volta. Non pensavo mi riguardasse: alla centesima bomba a cui sopravvivi, o ti illudi di essere immune e continui a camminare o impazzisci e ti immobilizzi. Io ero alla centesima bomba. La centounesima bomba è caduta a centro metri da me, nel punto verso cui stavo correndo, sulla testa di mia sorella e mia madre”, dice Maria Kutnyakova al Foglio. Alla vigilia di Natale, a Mariupol si è sentita un’esplosione e poi un tonfo con una lunga eco che ha ricordato i rumori che a marzo scorso erano l’abitudine: i combattimenti non c’entravano, i russi stavano demolendo ciò che rimaneva del teatro drammatico regionale e, insieme, le prove scientifiche del loro crimine. Il teatro della strage del 16 marzo 2022, quello con la grande scritta déti, bambini, dipinta con la vernice bianca sull’asfalto davanti alla facciata e sul retro: ogni lettera, in russo, era alta tre metri perché saltasse all’occhio dei piloti di aerei caccia come quello che ci ha sganciato sopra un missile. In quel momento un grattacielo di fumo grigio alto due volte i palazzi accanto si è sollevato sopra i corpi delle vittime e dei sopravvissuti del più grave attacco russo contro civili ucraini in un anno di guerra. C’erano poco più di mille persone e ne sono morte seicento. “Stavo tornando lì, ero uscita solo per andare a prendere del cibo da mio zio. Perché il mio frigorifero, la mia dispensa, il mio appartamento non esistevano più”. Maria si era trasferita nei sotterranei del teatro che funzionavano come rifugio per tutte le famiglie che, come la sua, erano rimaste senza casa. “Sono corsa in direzione delle fiamme mentre delle persone sporche di nero emergevano da sotto terra e correvano. Un cecchino russo ha sparato a una donna già ferita che correva verso l’esterno. Era come aver dato fuoco a un formicaio per far uscire gli insetti e poi schiacciarli, ma gli insetti eravamo noi”. Maria in quel momento ha avuto un attacco di panico che a posteriori ha rivalutato in “illuminazione”, la capacità di processare molte informazioni in fretta. “Sono fuggita dalle persone. Fino a quel momento conoscevo un’altra regola: lontano dai soldati, lontano dalle armi, vicino alle persone. Non perdersi, stare tutti insieme in un ospedale o in un teatro”. Era una regola sbagliata. La guerra russa a Mariupol funzionava in un altro modo: le persone non erano un intralcio tra le armi russe e l’obiettivo, ma l’obiettivo. “Se scappiamo ognuno in una direzione diversa non possono ammazzarci tutti”. Maria ha visto una massa commettere l’errore di fuggire verso uno stesso rifugio, ma non è riuscita a correggerli: “Tutti urlavamo e nessuno ascoltava”. Il nuovo rifugio era la Filarmonica di Mariupol, è stata distrutta dall’artiglieria russa venti minuti dopo. 

 

Kateryna è sopravvissuta alla stessa bomba di Maria, sua figlia di otto da quel giorno è balbuziente. I suoi nonni sono ancora a Mariupol: “Ci rivedremo quando sarà liberata”. Il cognome di Kateryna non compare per proteggere l’identità di una famiglia che vive sotto occupazione.

 

La parola pace per descrivere la vita a Mariupol oggi è impropria. La ricostruzione russa è parziale e i residenti fuggiti chiamano la loro città “città Potemkin”. Dalla definizione di “facciata Potemkin” che significa un posto fasullo, con un esterno di cartone luminoso e spettacolare messo a coprire un luogo tetro: una facciata progettata unicamente per nascondere un edificio marcio. “Si sta in fila per il pane e il riso delle ore a meno sei gradi”, dice Kateryna. Le immagini scattate dall’alto mostrano code talmente lunghe che fanno il giro dei palazzi, curvano in un vicolo e poi proseguono ancora, dopo un’altra svolta, su una strada a più corsie. “Ma la cosa che fa più paura è che non puoi fidarti di nessuno, non sai chi incontri, chi sono i russi che si sono messi a vivere nell’appartamento accanto al tuo, quello dei tuoi vicini che sono morti”. Ci sono anche vittime che sono diventate spaventose: “Persone traumatizzate che sono impazzite in senso clinico, e ora sono pericolose. E poi uomini ubriachi che tirano fuori i coltelli per ottenere qualsiasi cosa: soldi, sesso, cibo”. Gli stupri sono un’emergenza, anche le malattie, i saccheggi sono continuati e sono diventati più sofisticati: i russi sono entrati nelle filiali abbandonate dalle banche ucraine a Mariupol. Hanno spostato la polvere e i pezzi di vetro e di cemento scavando tra le macerie, hanno trovato i faldoni e gli hard disk e hanno rubato i dati dei correntisti ucraini. A metà febbraio l’agenzia d’intelligence Sbu, i servizi segreti interni di Kyiv, se n’è accorta: ma i russi avevano già inserito quei dati nelle interfacce online degli sportelli bancari, erano riusciti ad accedere e avevano trasferito sui propri conti – dai conti corrente degli abitanti di Mariupol – più di cento milioni in grivnia, oltre due milioni e mezzo di euro. 

 

A Vladimir Putin dà fastidio l’idea di dover mantenere con i propri soldi le sue, ingrate, vittime. Le operazioni bancarie online e al telefono le hanno fatte degli pseudo-ufficiali del governo dell’auto proclamata Repubblica separatista di Donetsk insieme a un gruppo di criminali su indicazione dei servizi segreti di Mosca, la somma rubata è già stata convertita in criptovaluta. Ci sono migliaia di famiglie a Mariupol che hanno perso i risparmi per il futuro: hanno rubato ai vivi, oltre che ai morti, “e a chi, come i miei genitori, crede ancora che nella loro vita cambierà di nuovo qualcosa ed esisterà di nuovo il futuro”. Nel presente, i soldi sarebbero serviti a poco: non puoi comprare elettricità se nel tuo quartiere la rete non è stata ripristinata, non puoi pagare una ditta di ristrutturazioni per coprire il buco nella parete di casa che ti fa gelare la notte se tutte le ditte edili sono state requisite dalla Repubblica separatista di Donetsk, e i farmaci – quando ci sono – non sono per i civili. 

 

Le cliniche private e gli otto complessi ospedalieri di Mariupol – una città grande come Miami – non curano più gli abitanti perché si sono riempiti di soldati russi che tornano mutilati dal fronte del Donbas, dalla città di Bakhmut o da quella, più piccola e più strategica, di Vuhledar. L’ospedale bombardato dai russi un anno fa è il numero tre, quello pediatrico con il grande reparto maternità. Il più importante, il numero 2, che ha cinquecentocinquanta posti letto e, prima della guerra, aveva il reparto di terapia intensiva migliore del Donbas, sarebbe anche l’unico ad avere i farmaci per le malattie neurologiche e il più attrezzato a curare i pazienti oncologici. L’emergenza sono le epidemie, le infezioni che si diffondono e non vengono né studiate né isolate né curate. I pazienti ucraini apparentemente infetti vengono respinti ai pronto soccorso, a dei malati cronici sono state rifiutate cure e ricoveri. Ci sono state scene selvagge di tentativi di rapine nei depositi di medicinali, l’ultimo dieci giorni fa: i rapinatori sono i malati. Gli oltre centomila abitanti rimasti dei quattrocentocinquantamila che c’erano prima della guerra vivono come fantasmi mentre ascoltano la televisione di Mosca raccontare l’ucronia della “Nuova Mariupol”. Il progetto russo è rendere la città dove i lavori per rifare l’asfalto sono continuamente rallentati dall’emersione di altri cadaveri (gli abitanti avevano seppellito i vicini alla buona sotto le bombe, per non ammalarsi) una scintillante “meta turistica internazionale”. “I mammut” – dicono i russi chiamando le grandi industrie siderurgiche come Azovstal a Ilyich con il soprannome dato dai locali – ormai “sono il passato”. 

 

Negli asili le mense sono state chiuse perché la Repubblica popolare dei separatisti ha finito i soldi, così maestre e presidi “collaborazionisti” o russi chiedono duecento rubli sottobanco ai genitori in cambio della promessa di un panino al bambino quando arriverà l’ora di pranzo e comincerà a protestare per la fame. “Ma chi ce li ha duecento rubli al giorno?”, commenta Kateryna. Di nuovo: al Cremlino infastidisce l’idea di spendere soldi russi per mantenere le proprie vittime. 

 

La controffensiva, l’uso insistente della parola “vittoria”, non è un puntiglio di Kyiv ma la versione sintetica di un progetto: riportare i panini nelle mense di Mariupol, rimettere al loro posto i libri di storia, ridare alle madri i letti del reparto maternità, curare le infezioni, identificare i morti, perseguire i crimini. 

 

La controffensiva è un affare del comandante Nazarii Kishak, della Settantaduesima brigata motorizzata schierata a Vuhledar. Vuhledar è un villaggio nel sud del Donetsk, i soldati di Kyiv di stanza lì sono i più vicini di tutti a Mariupol: sono a ottanta chilometri di distanza e quasi all’imbocco della superstrada che scende perfettamente in verticale fino alla città. Kishak non è un ottimista, a differenza di alcuni suoi colleghi non conosce le parole euforiche con cui di solito ciascuno descrive le capacità del proprio battaglione. Ma il suo battaglione è famoso in Ucraina per non essersi mai ritirato da nessun fronte: da nove anni Kishak non fa altro che la guerra e ha difeso Mariupol già nel 2014. L’ottimista nella sua unità è un ragazzo di 28 anni, nome di battaglia Marik (da Marte, dio della guerra), che è di Mariupol, che chiama “la città che brilla”, ha gli amici e un pezzo di famiglia ancora lì. “Come potrei non essere ottimista?”. Marik non ha dubbi che appena le condizioni lo permetteranno, la Settantaduesima scenderà verso sud e così lui riavrà la sua motocicletta, porterà le birra ai suoi compagni di scuola e i fiori alla zia. Il comandante Kishak dice al Foglio che, per il momento, mancano i presupposti: “Adesso siamo in difesa, per l’attacco ci servono almeno i mezzi americani Bradley e i carri armati tedeschi Leopard 1”, che potrebbero arrivare già alla fine di marzo secondo il ministro della Difesa di Berlino. “Ma prima ancora, ci serve distruggere le montagne di armi e munizioni russe accatastate laggiù, altrimenti la controffensiva diventa una carneficina”. Mosca ha fatto di Mariupol una grande fortezza militare perché, per pochi chilometri, è fuori dal raggio di azione degli Himars. Gli Himars hanno permesso a Kyiv di riuscire nella controffensiva di Kharkiv e di Kherson evitando un bagno di sangue proprio disarmando preventivamente il nemico con bombardamenti mirati sui depositi e costringendolo alla fuga. Ma, da allora, Mosca ha spostato le proprie armi più lontano dalla linea del fronte e fuori dal raggio di azione dei razzi americani. “Prima di poter avanzare, dobbiamo usare le Glsdb”, le bombe a guida Gps e laser che sono molto precise e arrivano un po’ più lontano delle munizioni Himars, fino a centocinquanta chilometri. A Mariupol, nella notte tra il 21 e il 22 febbraio, ci sono state almeno dieci esplosioni nelle basi militari russe: secondo alcuni analisti, si spiegano con il fatto che le Glsdb sarebbero già in Ucraina, alla consegna Kyiv non avrebbe dato pubblicità per evitare che Mosca spostasse ancora le sue armi. 

 

Anche l’Università Pryazovskyi di Mariupol è chiusa, lungo il marciapiede dove c’è il portone d’ingresso sono impilati tutti i libri di storia che conteneva la sua biblioteca. Le finestre a quel piano non esistono più, le bombe si sono portate via i vetri mesi fa: i russi buttano i libri sulla strada direttamente da quei buchi scomposti nelle pareti. Sono tutti destinati al macero e fanno parte di un piano strutturato: la Biblioteca nazionale ucraina – una delle più grandi del mondo – ha contato oltre trecento biblioteche regionali o universitarie e migliaia di biblioteche scolastiche distrutte in un anno di invasione, è un numero troppo alto perché possano rientrare nella casistica dei danni involontari, “collaterali”, come ha spiegato la presidente dell’Associazione bibliotecaria ucraina Oksana Bruy. Nelle città occupate, prima della ricostruzione, è una priorità la distruzione sistematicamente di ogni cosa faccia riferimento all’esistenza stessa dell’Ucraina che – per Vladimir Putin – è una chimera. E, insieme, di ogni cosa faccia riferimento ai crimini di Mosca. Una delle prime azioni dei soldati russi all’inizio dell’invasione su larga scala, un anno fa, era stata un bombardamento mirato contro un archivio nella città di Chernihiv famoso per essere il posto dove venivano custoditi i documenti sulla repressione del Kgb nei confronti dei dissidenti ucraini, oltre a quelli che riguardavano l’Holodomor, il genocidio di contadini ucraini voluto da Stalin. 

 

Maria era riuscita a scappare da Mariupol dopo il bombardamento del teatro e oggi vive a Vilnius, in Lituania, “dove non c’è il mare. Spero che Mariupol venga liberata entro l’estate perché se penso ai soldati russi che si godono la mia spiaggia ho una crisi di nervi. Non so quando finisce questa guerra, ma finisce con Mariupol ucraina. Ho imparato che la storia la scrivono i vincitori: la storia della mia città non la può scrivere Putin”.  

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